In tema di notifiche a mezzo posta, il d.lgs 22 luglio 1999 n. 261, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE, all’art. 4, comma quinto, ha continuato a riservare in via esclusiva, per esigenze di ordine pubblico, al fornitore del servizio universale (l’Ente Poste), gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie. Ne consegue che, in tali procedure, la consegna e la spedizione mediante raccomandata, affidata ad un servizio di posta privata, non sono assistite dalla funzione probatoria che l’art. 1 del citato decreto legislativo ricollega alla nozione di “invii raccomandati” e devono, pertanto, considerarsi inesistenti. Notificazioni civili – A mezzo posta – Raccomandata inviata mediante un servizio di posta privata – Effetti – Inesistenza. Corte di Cassazione – VI civile, ordinanza 13 marzo 2014 n. 5873 .
Corte di Cassazione – VI civile, ordinanza 13 marzo 2014 n. 5873
In tema di notifiche a mezzo posta, il d.lgs 22 luglio 1999 n. 261, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE, all’art. 4, comma quinto, ha continuato a riservare in via esclusiva, per esigenze di ordine pubblico, al fornitore del servizio universale (l’Ente Poste), gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie. Ne consegue che, in tali procedure, la consegna e la spedizione mediante raccomandata, affidata ad un servizio di posta privata, non sono assistite dalla funzione probatoria che l’art. 1 del citato decreto legislativo ricollega alla nozione di “invii raccomandati” e devono, pertanto, considerarsi inesistenti. Notificazioni civili – A mezzo posta – Raccomandata inviata mediante un servizio di posta privata – Effetti – Inesistenza. Corte di Cassazione – VI civile, ordinanza 13 marzo 2014 n. 5873 .
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La sentenza del Tribunale di Velletri del 30 novembre 2010 ha sollevato d'ufficio la questione in ordine all'improcedibilità della domanda per mancata notifica del ricorso introduttivo nel termine di 10 giorni indicato dal 4° comma dell'art. 415 c.p.c., attesa la mancata costituzione di parte convenuta, malgrado la notifica fosse avvenuta nel rispetto dei termini di difesa previsti dal 5° comma dello stesso articolo.
Tuttavia in mancanza della sanzione dell'espressa dichiarazione normativa ex art. 152, 2° comma c.p.c., il termine di cui sopra dei 10 giorni per la notifica, non dovrebbe ritenersi perentorio, sempreché siano rispettati i termini di comparizione fissati dal 5° e 6° comma, stesso articolo.La corretta lettura della citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 2064 del 2008) evidenzia un erroneo presupposto interpretativo, secondo cui l'inosservanza del termine di cui all'art. 435, secondo comma, c.p.c. determina l'improcedibilità dell'appello, senza tener presente che nella fattispecie esaminata dalle S.U. tale improcedibilità era stata affermata non già per la sola violazione dell'art. 435, II co., ma per l'inosservanza dell'art. 435, III co., per non essere mai intervenuta la notifica ivi prevista.
con richiamo all'ordinanza della Corte Costituzionale n. 60/2010, (e poi ordinanze n. 301 e 97 del 2009) che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 435 c.p.c., secondo comma, di formulazione analoga al comma 4 dell'art. 415 c.p.c..
Tra le tante pronunce si richiama: Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 11-12-2012, n. 22508 Il motivo di ricorso risulta manifestamente fondato sulla base del principio ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui nel rito del lavoro e, conseguentemente, nel c.d. rito locatizio, al quale 447 bis cod. proc. civ. estende le sue norme in quanto applicabili, il termine di dieci giorni assegnato all'appellante per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione (art. 435 c.p.c., comma 2) non è perentorio e, pertanto, la sua inosservanza non comporta decadenza, sempre che resti garantito all'appellato lo spatium deliberandi non inferiore a venticinque giorni prima dell'udienza di discussione della causa (art. 435 c.p.c., comma 3), perchè egli possa apprestare le proprie difese (Cass. 14 luglio 2011, n. 15590; 15 ottobre 2010, n. 21358). Invero - come evidenziato in specie nella sentenza n. 21358/2010 - l'art. 435 c.p.c., comma 2, alla stregua del quale "l'appellante, nei dieci giorni successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e del decreto all'appellato", deve essere letto ed interpretato in relazione al contenuto del successivo comma 3 del citato articolo, alla stregua del quale "tra la data di notificazione all'appellato e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni. Il che evidenzia come lo stesso legislatore, nel porre il suddetto termine (ordinatorio) di cui al comma 2, abbia disciplinato le conseguenze di una eventuale inosservanza di tale termine, prevedendo, in buona sostanza, al comma 3, che la notifica effettuata mantiene i suoi effetti, anche in caso di mancato rispetto del termine di cui al comma precedente, allorchè tra la data di notificazione e quella dell'udienza permanga un termine non inferiore a venticinque giorni. In altri termini appare chiaro, dal complesso dei due commi della disposizione all'esame, che il legislatore ha regolato normativamente le conseguenze della inosservanza del termine di cui al comma 2, prevedendo in via generalizzata il permanere degli effetti della compiuta notifica nell'ipotesi prevista dal comma 3, in tal modo superando - alla stregua delle stesse previsioni codicistiche - la necessità di uno specifico provvedimento autorizzatorio o di proroga da parte del giudice prima della scadenza del stesso termine. Per una ulteriore riflessione sul punto cfr. www.giustiziadellavoro.it (_qui) dove si fa richiamo, ex multis: Cass. 22 febbraio 1988, n. 1835, in Mass. Giur. It., 1988; Cass. 07 febbraio 1989, n. 745, in Mass. Giur. It., 1989; Cass., 16 agosto 1993, n. 8711, in Mass. Giur. It., 1993 La Camera Civile ed Amministrativa di Velletri presenta: "LEGALNEWS" - Incontri e dibattiti su prassi, novità legislative e giurisprudenziali - mercoledì 8 maggio 2013, presso l' Aula Polifunzionale del Tribunale di Velletri, ore 12.00 - I° incontro “LA RIFORMA FORNERO NELLA PRASSI GIURISPRUDENZIALE” - Relatore: Avv. Mauro Remiddi del Foro di Roma. Si riporta sull'argomento in oggetto
Con riferimento agli effetti del recesso ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, anche ai fini dell'applicazione della L. n. 92/12 (c.d. Legge Fornero), si richiama un'interessante pronuncia del Giudice del Lavoro del Tribunale di Velletri (dott.ssa Sabrina Mostarda) che richiamando <<la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a uqanto determinato dalle parti sociali (Cass. n. 8295/00)>> e quindi la nullità del patto di prova nella parte in cui è stato superato il limite di durata previsto nel C.c.n.l. di riferimento, rileva che <<in mancanza di giusta causa o giustificato motivo il recesso deve ritenersi disciplinato dalla normativa vincolistica in tema, con tutti gli effetti dalla stessa previsti e fra essi anche quelli ex art. 18 L. n. 300 del 1970 (Cass. 5591/01); ciò diversamente dall'ipotesi di recesso durante il patto di prova legittimo, per la non trova applicazione il regime di cui all'art. 18 Stat. bensì il regime odibnario di nullità>> (Ordinanza ex art. 1 co, 49, L. 91/12 del 8/1/2013) Con riferimento al "motivo illecito" o "estraneo al patto di prova" si richiama invece la sentenza della Sezione Lavoro della Corte Suprema n. 402 del 17 gennaio 1998: << R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Raffaele NUOVO Presidente Dott. Bruno D’ANGELO Consigliere Dott. Donato FIGURELLI Consigliere Dott. Bruno BATTIMIELLO Consigliere Dott. Giovanni AMOROSO Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente S E N T E N Z A sul ricorso proposto da: QUATTROCCHI MARIA, elettivamente domiciliata in Roma Cancelleria Corte Suprema di Cassazione, presso lo studio dell’avvocato Antonio Siracusa, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti ricorrente contro ALHOF DI A. HOFMANN S.r.1., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA G.AVEZZANA 13, presso lo studio dell'avvocato LUCIANA BONIFAZI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO ANDREOTTI, LUIGI FRACCARI, giusta delega in atti; controricorrente avverso la sentenza n. 7858/94 del Tribunale di MILANO, depositata il 03/09/94 r.g.n.276/94; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/97 dal Relatore Consigliere Dott. Giovanni AMOROSO; udito l'Avvocato BONIFAZI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Mario DELLI PRISCOLI che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1 - Con ricorso del 21 marzo 1994 al Pretore di Milano Quattrocchi Maria esponeva che - dopo essere stata assunta il 29 gennaio 1993 dalla società ALHOF s.r.1. come impiegata di II livello (qualifica prevista dal contratto collettivo del commercio applicabile al rapporto) con mansioni di addetta alle vendite per un periodo di prova di tre mesi - era stata licenziata il 30 marzo 1993 per il mancato superamento della prova dopo che il Direttore generale della società l'aveva preavvertita che l'azienda doveva ridurre i costi. Chiedeva quindi dichiararsi l'illegittimità del licenziamento perchè privo di giusta causa o di giustificato motivo. Si costituiva la società convenuta chiedendo il rigetto della domanda. Con sentenza del 28 luglio 1993 il Pretore di Milano rigettava la domanda della ricorrente. Avverso tale pronuncia la ricorrente proponeva appello, sostenendo che aveva superato la prova tanto che ra stata adibita a mansioni di responsabile delle vendite con mansioni superiori rispetto quelle previste. Si doleva inoltre del fatto che il Pretore avrebbe dovuto ammettere le prove per accertare che la società aveva receduto per motivi diversi dall'esito della prova, come emergente anche dal fatto che la società nelle sue difese di primo grado aveva addotto, a giustificazione del recesso, motivi di crisi aziendale e non motivi attinenti alla prova. Si costituiva la società e chiedeva il rigetto dell'appello rilevando che la lavoratrice aveva lavorato come addetta all'acquisizione di ordini telefonici alle dipendenze del responsabile delle vendite; che l'azienda aveva subito l'andamento sfavorevole delle importazioni di prodotti industriali; che aveva risolto il rapporto con la lavoratrice perchè le vendite avevano subito una stasi dal marzo 1993 e perchè la stessa aveva turbato l'armonia dell'ufficio vendite con il suo carattere; che, su richiesta della lavoratrice, le aveva rilasciato una seconda lettera di recesso per evidenziare le sue capacità professionali e l'aveva motivata con il calo delle vendite. Il Tribunale di Milano con sentenza 3 settembre 1994 rigettava l'appello, confermando la sentenza di primo grado. In particolare il Tribunale - nel richiamare la libera recedibilità dal rapporto in prova, pur con i limiti introdotti dalla sentenza n.189 del 1980 della Corte costituzionale - osservava che la ricorrente non aveva mai indicato quale fosse stato il motivo illecito del licenziamento. Pertanto - affermava il Tribunale - quando il lavoratore non indica il motivo illecito, non è consentito effettuare indagini e sostituirsi nella valutazione del superamento della prova all'imprenditore che ha una assoluta discrezionalità, se ha gestito la prova correttamente. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la Quattrocchi con un unico complesso motivo di impugnazione. Resiste con controricorso la società ALHOF s.r.1.. MOTIVI DELLA DECISIONE 1 - Con l'unico motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2096 c.c.. In particolare la ricorrente si duole del fatto che il Tribunale, pur riportandosi all'orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in ordine alla possibilità del lavoratore di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso intimato in periodo di prova, dimostrando il positivo superamento dell'esito della prova e l'imputabilità del licenziamento ad un fatto o motivo illecito, ha sostenuto che la ricorrente non avrebbe mai provato, e neppure indicato, il motivo illecito. Invece nel ricorso introduttivo erano indicate le ragioni reali della risoluzione del contratto, ragioni che costituivano un motivo estraneo alla causa del patto di prova e quindi integravano l'ipotesi del motivo illecito. D'altra parte anche la resistente, nel costituirsi in giudizio, aveva affermato che in seguito alla perdurante recessione e al calo del fatturato la società si era vista costretta a ridurre organico e spese e che la risoluzione del rapporto di lavoro con la Quattrocchi era stato il primo provvedimento assunto; in particolare la Quattrocchi era stata scelta perchè ultima assunta e perchè con il suo "caratterino" turbava l'armonia nel reparto vendite. La difesa della ricorrente insiste in particolare nell'affermare che è illecita ogni motivazione che non faccia riferimento alla prova, intesa dal legislatore quale causa del rapporto di lavoro. Il calo del fatturato, la recessione economica e la crisi di mercato non sono quindi compatibili con il sistema dell'art. 2096 cod. civ.. In realtà la società avrebbe dovuto assumere la Iavoratrice a tempo indeterminato (trasformando il rapporto) e successivamente procedere a licenziamento per giustificato motivo oggettivo per riduzione di personale a seguito della sopravvenuta crisi aziendale. Il ricorso è fondato. La libera recedibilità dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova, prevista per ciascuna delle parti dal terzo comma dell'art. 2096 c.c., è stata dapprima temporalmente circoscritta dall'art. 10 1. 15 luglio 1966 n.604, che, con disposizione inderogabile, prevede soltanto per un periodo massimo di sei mesi dall'inizio del rapporto stesso l'inapplicabilità della legge medesima e quindi l'esonero dal controllo di giustificatezza del licenziamento individuale, e successivamente è stata in una certa misura limitata dalla giurisprudenza costituzionale e di illegittimità. Ne è risultato un regime intermedio che non è più quello codicistico della mera libera recedibilità, ma non è neppure quello del recesso causale (per giusta causa o per giustificato motivo). 3 - E' stata soprattutto la giurisprudenza costituzionale ad incidere significativamente sulla disciplina del recesso in periodo di prova. 3 - 1 - Con una pronuncia interpretativa di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale del cit. terzo comma dell'art. 2096 c.c. la Corte (C. cost. n. 189 del 1980) - superando un precedente (meno aperto) orientamento (C. cost. n.204 del 1976) - ha indicato l'interpretazione adeguatrice che - postulando che la discrezionalità del datore di lavoro nel recedere dal rapporto durante il periodo di prova non è da intendersi assoluta ed insindacabile, bensì « si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore » - consente di escludere la violazione dei parametri allegati e segnatamente degli artt. 35 e 41, comma 2, Cost.. La Corte ha quindi tracciato quelle che sono le linee di un possibile sindacato del recesso ad nutum del datore di lavoro. Il lavoratore può innanzi tutto contestare la "legittimità" del licenziamento "quando risulti che non è stata consentita, per inadeguatezza della durata dell'esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato" , sicchè la congruità del periodo di prova, ancorchè non prevista dall'art. 2096 c.c., è divenuta presupposto di legittimità del recesso del datore di lavoro. Inoltre - prosegue la pronuncia della Corte costituzionale - il lavoratore può eccepire e dedurre la "nullità" del licenziamento ove riesca a "dimostrare il positivo superamento dell'esperimento nonchè l'imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito" . 3 - 2 - Questa giurisprudenza costituzionale è stata poi portata a conseguenze ulteriori e più avanzate con riferimento a due speciali ipotesi di rapporto di lavoro in prova, in cui si sovrappongono peculiari ragioni di tutela del prestatore: quella dei soggetti, appartenenti a categorie protette, awiati per il collocamento obbligatorio, e quella della donna in gravidanza o purperio. Nell'un caso « il recesso del datore di lavoro deve avere una adeguata motivazione» (C. cost. n.255 del 1989) sicchè si va anche al di là della ordinaria disciplina della tutela reale ed obbligatoria che non prescrive l'obbligo di motivazione del licenziamento se non a seguito di tempestivo interpello del lavoratore (art. 2 1. n.604/66, cit.); inoltre « la corretta conduzione e il corretto espletamento della prova è soggetta al sindacato del giudice » , tenendo conto che « l'esito della prova non deve essere assolutamente influenzato da considerazioni di minor rendimento dovute alle infermità o alle minorazioni » del prestatore. Nell'altro caso C. cost. n.172 del 1996 - pur avendo da una parte eliminato, con dichiarazione di incostituzionalità, l'estensione anche al periodo di prova (come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità) della speciale garanzia del divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza o in puerperio - ha bilanciato il conseguente deficit di tutela disegnando una disciplina così formulata: se il datore di lavoro, che risolve il rapporto in prova, conosce lo stato di gravidanza della lavoratrice, «deve spiegare motivatamente le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l'esperimento» ; se ignora lo stato di gravidanza, non è tenuto a motivare il licenziamento perchè opera l' " esonero di motivazione, secondo la disciplina generale degli artt. 2096 cod. civ. e 10 della legge n.604 del 1966" (esonero che in realtà riguarda la necessità della giusta causa o del giustificato motivo come presupposti del recesso, pittosto che la motivazione, non essendo prescritto in generale che il licenziamento debba essere intimato con la contestuale indicazione della motivazione), ma la lavoratrice può provare che il licenziamento è stato determinato « da altri motivi pur sempre estranei alla finalità dell'esperimento» 3 - 3 - Sinteticamente quindi può dirsi che nel periodo di prova non c'è il mero regime di libera recedibilita daI rapporto essendo comunque consentito entro certi limiti un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore. Conclusione questa peraltro in sintonia con il parallelo assetto, risultante da C. cost. n.169 del 1973, della disciplina del licenziamento dell'apprendista, intimato nel periodo di tirocinio, licenziamento che - a seguito di tale pronuncia - è assoggettato al regime del recesso causale, salva la facoltà del datore di lavoro di recedere ex art. 19 1. n. 25 del 1955 al termine del periodo medesimo. La giurisprudenza di legittimità a sua volta si è inserita in questo processo di evoluzione della giurisprudenza costituzionale talora seguendo una direttrice più cauta, che - limitandosi a richiamare la deducibilità da parte del lavoratore in prova dell'eventuale motivo illecito del recesso (oltre che dell'inadeguatezza della durata dell'esperimento) - sembra ridimensionare l'interpretazione adeguatrice appena esaminata per ricollocare il rapporto in prova nel regime della mera recedibilità, che in generale non preclude certo la dedueibilità del motivo illecito; talaltra, muovendosi lungo una direttrice più avanzata, la giurisprudenza di questa Corte ha operato l'equiparazione - quanto all'idoneità ad inficiare il recesso - del motivo estraneo all'esito dell'esperimento al motivo illecito (che costituisce lo specifico profilo che rileva nel giudizio in esame). In particolare - quanto a questo secondo, più avanzato, orientamento, che può considerarsi un completamento ed un'evoluzione della precedente giurisprudenza - si è affermato che « il sindacato del giudice ... può essere sollecitato in ordine alla verifica del collegamento tra recesso ed esito dell'esperimento » (Cass. l dicembre 1992 n.12814). Più esplicitamente Cass. 21 aprile 1993 n.4669 ha ribadito che il recesso del datore di lavoro « deve essere collegato all'esito dell'esperimento » sicchè il lavoratore può dedurre la « nullità» del licenziamento provando «il positivo superamento dell'esperimento e l'imputabilità del recesso ad un motivo estraneo e quindi illecito»; affermazione questa che esibisce appunto la raggiunta equiparazione del motivo estraneo all'esito della prova al motivo illecito (ma in tal senso già Cass. 25 giugno 1987 n.5608; 17 marzo 1986 n.1833; 6 febbraio 1984 n.913). Analogamente, ed ancor più recentemente, Cass. 9 novembre 1996 n.9797 ha affermato che l'esercizio del potere di recesso, consentito anche nel corso del periodo di prova (salvo che questa sia stata stabilita per un termine minimo necessario) deve essere coerente con la causa del contratto, sicchè il licenziamento è legittimo ove il lavoratore non dimostri il positivo superamento dell'esperimento, nonchè l'imputabilità del recesso ad un motivo « estraneo e perciò illecito » . Parallelamente però si rinvengono ancora posizioni più caute che fanno riferimento solo al motivo illecito (oltre all'inadeguatezza dell'esperimento). In particolare Cass. 25 marzo 1996 n.2631 ha affermato che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato e che incombe sul lavoratore licenziato l'onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si è svolto in tempi e con modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto, da valutarsi essenzialmente sulla base delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c.. 5 - Complessivamente, coniugando la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità, risulta un'ibridazione della disciplina del licenziamento individuale in periodo di prova a metà strada tra la libera recedibilità ed il recesso causale per giusta causa o giustificato motivo. Isolando poi in particolare la specifica questione dell'idoneità, o meno, del motivo estraneo all'esperimento lavorativo ad inficiare il recesso, emerge uno sviluppo giurisprudenziale che, inizialmente focalizzando nel solo motivo illecito in senso stretto il possibile sindacato del giudice sulle ragioni del recesso, è pervenuta più recentemente, all'equiparazione del motivo estraneo a quello illecito. Tale problematicità ricostruttiva è poi rispecchiata proprio dalla contrapposizione tra la pronuncia impugnata (che ha ritenuto legittimo il licenziamento della lavoratrice in prova non avendo quest'ultima provato, ma in realtà neppure dedotto, alcun motivo illecito del recesso) e la difesa della ricorrente (che censura tale pronuncia insistendo nell'affermare l'illegittimità del licenziamento perchè sorretto da un motivo estraneo all'esperimento, ancorchè in sè non illecito). 6 - Mette conto a questo punto precisare che, al di là di imprecisioni terminologiche, è pacifico tra le parti in causa (e risulta finanche dal controricorso) che la lavoratrice in prova è stata licenziata « in seguito al calo di fatturato ed alla stasi delle attività commerciali che hanno costretto la società a ridurre costi e spese fisse, e , quindi, il suo organico » ; conseguentemente è stato ridimensionato l'organico dell'ufficio vendite e la scelta del dipendente da licenziare tra quelli addetti all'ufficio è caduta sulla lavoratrice ricorrente « perchè ultima assunta ... e per il suo "caratterino" ed il suo modo di fare con le colleghe » . E' questo un motivo estraneo all'esperimento (anche il riferimento alle connotazioni comportamentali della ricorrente è stato fatto per indirizzare la scelta del dipendente da licenziare e non già al fine della valutazione dell'idoneità della stessa e quindi dell'esito della prova), ma non costituisce certo un motivo illecito essendo anzi positivamente previsto dall'art. 3 1. n.604/66 che il giustificato motivo (oggettivo) di licenziamento possa consistere in ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento. 7 - La fattispecie in esame è quindi emblematica dello specifico profilo della rilevanza del motivo estraneo all'esperimento lavorativo, questione questa in ordine alla quale il canone dell'interpretazione adeguatrice, quale indicato da C. cost. n. 189 del 1980, offre ancora una volta le coordinate per un'ulteriore puntualizzazione sul tema, così sviluppando l'orientamento giurisprudenziale finora esaminato. In disparte la possibile inadeguatezza della durata della prova, che non è in discussione, va innanzi tutto ribadito che la mancata prova da parte del lavoratore licenziato di un motivo illecito del recesso del datore di lavoro non esaurisce il possibile sindacato giudiziale, come viceversa ha mostrato di ritenere la pronuncia impugnata per essersi arrestata a tale valutazione senza prendere in considerazione il motivo, ancorchè non illecito, del recesso medesimo. Se così fosse, risulterebbe null'altro che l'ordinario regime di libera recedibilità, che vede comunque deducibile la nullità del recesso per motivo illecito; ma ciò contrasterebbe con l'interpretazione adeguatrice offerta da C. cost. n. 189/80, cit., che - come sopra più ampiamente esposto - ha mostrato di ritenere altrimenti illegittima la disposizione censurata ove interpretata, secondo il suo tenore letterale, nel senso di prevedere il mero regime di libera recedibilità. Quindi il lavoratore licenziato può dedurre anche il motivo « estraneo » all'esperimento offrendo vuoi la prova diretta della sua esistenza, vuoi quella indiretta a mezzo della prova del positivo superamento dell'esperimento che depone, con la valenza della presunzione semplice, per l'esistenza di un motivo diverso da quello del mancato superamento dell'esperimento stesso. Il motivo « estraneo » all'esperimento non è però in sè motivo illecito ex art. 1345 c.c., nè è a quest'ultimo equiparabile quanto all'idoneità ad inficiare il recesso come affetto da vizio di nullità. Se così fosse, si avrebbe un'anomala ed ingiustificata stabilità e resistenza del rapporto in prova di fronte a quelle cause che sono riconducibili al giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Si determinerebbe infatti una differenziazione di disciplina, di dubbia legittimità costituzionale, tra lavoratori in prova e lavoratori ordinari in danno di questi ultimi perchè solo essi, e non anche i primi, sarebbero assoggettabili a licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. L'elemento differenziale tra le due fattispecie in comparazione (ossia l'essere in corso, o meno, un esperimento lavorativo) è semmai neutro rispetto alla sopraggiunta evenienza di un'esigenza aziendale di ridimensionamento di un reparto e di conseguente soppressione di un posto di lavoro; ma certo non può giocare a sfavore di chi la prova abbia già superato o sia stato assunto senza patto di prova. Ancora una volta quindi è il canone dell'interpretazione adeguatrice ad indurre a scartare soluzioni che si pongano in contrasto con parametri costituzionali e ad orientare l'esegesi verso l'affermazione di un sindacato sulla giustificatezza del motivo estraneo all'esperimento, non dissimile da quello sotteso all'art. 3 l.n.604/66, quanto al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in regime di recesso causale. In questa limitata ipotesi quindi vi è una sostanziale parificazione della posizione del lavoratore in prova a quella del lavoratore ordinario. Sicchè è solo l'ingiustificato motivo estraneo all'esperimento (e non già il motivo estraneo tout court) ad inficiare il recesso al pari del motivo illecito con conseguente obbligo del datore di lavoro di proseguire la prova illegittimamente interrotta. Tale sindacato sulla giustificatezza del motivo del licenziamento implica una valutazione di merito per verificare nella specie l'autenticità dell'allegata crisi del settore in cui operava la società resistente ed il nesso di causalità con la risoluzione del rapporto di lavoro con la ricorrente. 8 - In conclusione quindi la pronuncia impugnata va cassata perchè, sul presupposto della ritenuta deducibilità del solo motivo illecito, ha omesso di tener conto del fatto che il licenzlamento della lavoratrice in prova era sorretto da un motivo [pur lecito, ma) del tutto estraneo all'esperimento lavorativo in tal modo incorrendo nell'erronea 'applicazione del più volte cit. terzo comma dell'art. 2096 c.c.. La causa va pertanto rimessa al tribunale di Monza che si atterrà al principio secondo cui, ove il lavoratore, in caso di licenziamento in periodo di prova, dimostri che il recesso è avvenuto per un motivo estraneo all'esperimento lavorativo, ma non qualificabile come motivo illecito, il giudice deve valutarne la giustificatezza al fine di accertare l'idoneità, o meno, del recesso a por termine alla prova ed a risolvere il rapporto. PER QUESTI MOTIVI accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese al Tribunale di Monza. Così deciso in Roma, il 17 aprile 1997. Il Consigliere estensore (Giovanni Amoroso) Il Presidente (Raffaele Nuovo) >> Con l' Ordinanza del 24 dicembre 2012 il G.U.L. del Tribunale di Velletri solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 comma 5°, del Collegato Lavoro, L. n. 183/2010, per come interpretato autenticamente dallʼart. 1, comma XIII della L. 92/2012, nellʼipotesi di successione di più contratti a tempo determinato, con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.
Il Tribunale, prendendo in considerazione aspetti differenti da quelli già presi in esame dalla Corte Cost. nella sentenza n. 303/2011, ha messo in discussione che <<…la normativa in questione, nel caso di reiterazione di contratti a termine, sia conforme al punto 8.3 (c.d. clausola di non regresso) dellʼaccordo quadro allegato alla Dir. 1999/70/Ce, arretrando il livello generale di tutela previsto per i lavoratori a fronte di successive stipulazioni a tempo determinato. (…) Sicchè detta disposizione legislativa riduce in modo consistente il livello di tutela a fronte dellʼabusiva stipulazione di contratti a termine, eliminando le conseguenze patrimoniali gravanti sul datore di lavoro secondo le regole di diritto comune e fissando i risvolti economici dellʼillegittimo rifiuto a ripristinare il rapporto di lavoro entro margini prefissati, di gran lunga inferiori al trattamento economico che sarebbe spettato in forza del regime previgente - anche per la correlata privazione del trattamento previdenziale -, oltreché addossando sul lavoratore le conseguenze negative della durata del processo. (...) Tanto più quando lʼarretramento della tutela patrimoniale non è compensato in alcun modo ed è stato anzi, introdotto, secondo il combinato disposto dei commi 1 e 4 dellʼarticolo, un ulteriore limite, consistente nella previsione di un termine di decadenza per lʼimpugnazione dellʼillegittima stipulazione del contratto a tempo determinato, insussistente fino a quel momento (…)>> FaSentenza 272/2012 Giudizio
Presidente QUARANTA - Redattore CRISCUOLO Udienza Pubblica del 23/10/2012 Decisione del 24/10/2012 Deposito del 06/12/2012 Pubblicazione in G. U. Norme impugnate: Artt. 5, c. 1°, primo, secondo e terzo periodo e 16, c. 1°, del decreto legislativo 04/03/2010, n. 28; art. 2653, primo comma, n. 1, del codice civile; art. 16 del decreto ministeriale 18/10/2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale 06/07/2011, n. 145. Massime: Atti decisi: ordd. 254 e 268/2011; 2, 19, 33, 51, 99 e 108/2012 SENTENZA N. 272 ANNO 2012 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), dell’articolo 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, dell’articolo 16 del decreto ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), promossi dal Giudice di pace di Parma con ordinanza del 1° agosto 2011, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011, dal Giudice di pace di Catanzaro con due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011, dal Giudice di pace di Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011, dal Giudice di pace di Salerno con ordinanza del 19 novembre 2011, dal Tribunale di Torino con ordinanza del 24 gennaio 2012 e dal Tribunale di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 254 e 268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 51 e 54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2012. Visti gli atti di costituzione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri, della «Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, dell’AIAF, Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, dell’Unione Nazionale delle Camere Civili, dell’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., nonché gli atti di intervento della Associazione nazionale mediatori e conciliatori, della Società italiana conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, di Assomediazione – Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, di Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ed altri, del Consiglio Nazionale Forense, della ADR Accorditalia s.r.l. e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 e nella camera di consiglio del 24 ottobre 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo; uditi gli avvocati Marilisa D’Amico e Lotario Dittrich per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, Maria Cristina Stravaganti per la Società italiana conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), Francesco Franzese per l’Assomediazione – Associazione italiana. organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, Beniamino Caravita di Toritto per la Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ed altri, Massimo Luciani per il Consiglio Nazionale Forense, Giorgio Orsoni per l’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri e per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Giuliano Scarselli per l’AIAF – Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, Giampiero Amorelli per «l’Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, Antonio De Notaristefani Di Vastogirardi per l’Unione Nazionale delle Camere civili, Rodolfo Cicchetti per l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a. e l’avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con ordinanza del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali). Il TAR premette che l’ordinanza in questione è stata emessa nell’ambito del procedimento relativo ai ricorsi, successivamente riuniti, promossi entrambi contro il Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico; che il primo ricorso è stato proposto dall’Organismo unitario dell’avvocatura italiana – OUA, in persona del presidente avv. Maurizio de Tilla, il quale agisce anche in proprio, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, in persona del presidente avv. Francesco Caia, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, in persona del presidente avv. Francesco Torrese, il quale agisce anche in proprio; dall’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, in persona del presidente avv. Franco Tortorano, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, in persona del presidente avv. Rosa Marino; dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Larino, in persona del presidente avv. Marco d’Errico, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona del presidente avv. Demetrio Rivellino, il quale agisce anche in proprio; da Mario Pietrunti, da AIAF – Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, in persona del presidente avv. Milena Pin; da Filippo Pucino, Paola Pucino, Angelo Pucino, Carmelo Maurizio Sergi, Federica Eminente, Sabrina Sifo, Salvatore Walter Pompeo, Eugenio Bisceglia, Vitangelo Mongelli, Vincenzo Papaleo, Salvatore Di Cristofalo, Giovanni Zambelli, Giuseppe Di Girolamo, Agostino Maione, Claudio Acampora, Luigi Ernesto Zanoni; che nel giudizio a quo, ad adiuvandum, sono intervenuti l’Associazione degli avvocati romani, l’Associazione agire e informare, i Consigli dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e di Salerno mentre, ad opponendum, sono intervenuti l’Associazione avvocati per la mediazione, Lorenza Morello e Alberto Mascia, ADR Center s.p.a., l’Associazione italiana dei dottori commercialisti ed esperti contabili e l’Unione nazionale giovani dottori commercialisti; che il secondo ricorso è stato proposto dalla Unione Nazionale delle Camere civili (UNCC); che oggetto dei ricorsi è la domanda di annullamento del decreto del Ministro della giustizia, adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico, n. 180 del 2010, avente ad oggetto il «Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010», e «la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli art. 24, 76 e 77 Cost.». In particolare, il rimettente, dopo essersi soffermato sulla possibilità della diretta impugnabilità del regolamento innanzi al giudice amministrativo e sul quadro normativo di riferimento, espone i motivi dei ricorsi. 1.1.— Con riguardo al primo ricorso, il giudice a quo riferisce che i ricorrenti lamentano l’assenza, nel d.m. n. 180 del 2010, di criteri volti ad individuare ed a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività squisitamente giuridica che essi andrebbero a svolgere, e che sarebbe richiesta sia dalla normativa comunitaria, sia dalla legge delega 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile). Sul punto i ricorrenti pongono in rilievo che, a livello comunitario, l’art. 4 della direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale), dispone che la mediazione «sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti», mentre l’art. 60, lettera b), della legge delega citata, tra i principi e criteri direttivi, richiede di prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione. A sostegno della censura i ricorrenti osservano che l’art. 4 del regolamento, nel disciplinare l’iscrizione, a domanda, degli organismi di mediazione che possono essere costituiti sia da enti pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al comma 2, una serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario, tra cui la capacità finanziaria ed organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile e, poi, a prescrivere, al comma 3, una verificazione di tipo «aggiuntivo» sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento, senza essere correlata alle competenze giuridiche che sarebbero oggettivamente richieste dall’attività di mediazione. Sotto tale profilo, i ricorrenti escludono che il criterio selettivo, di cui lamentano la carenza, possa essere costituito dalla previsione di cui all’art. 4, comma 3, del regolamento impugnato il quale prevede, alla lettera a), che il mediatore debba essere in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale, oppure debba essere iscritto ad un ordine o ad un collegio professionale e, alla lettera b), che il mediatore abbia una specifica formazione ed uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione regolati dal successivo art. 18 del d.m. citato. Tali elementi, essendo sprovvisti di una specifica professionalità, delineerebbero un’area generica attinente al solo ambito della formazione culturale, che risulterebbe priva di quegli agganci ad una precipua qualificazione e perizia nell’ambito giuridico professionale, invece necessaria in ragione della tipologia della prestazione che deve essere resa. Ciò, ad avviso dei ricorrenti, varrebbe ancor di più alla luce dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e delle materie ivi previste, in relazione alle quali l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ovvero si pone come alternativa al sistema giudiziale o quale funzione stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche. L’assunto, per cui il procedimento di mediazione dovrebbe essere gestito con l’ausilio di persone svolgenti la professione legale, si fonderebbe sui seguenti dati: il procedimento di mediazione non conclusosi positivamente incide, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed ai sensi dell’art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009, sulle spese del successivo giudizio; l’art. 13 del d.lgs. citato intitolato «spese processuali» prevede, infatti, che quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta conciliativa, alla quale la parte vincitrice non abbia aderito, il giudice è obbligato ad escludere la ripetizione delle spese sostenute ed a condannarla, invece, al rimborso delle spese sopportate dal soccombente; il verbale dell’accordo conclusivo del procedimento di mediazione, non contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, e sottoposto ad omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. citato; l’avvocato ha l’obbligo, all’atto del conferimento dell’incarico, di informare il proprio assistito della possibilità di avvalersi della mediazione, ciò ai sensi dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. citato e dell’art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009, nonostante lo svolgimento della relativa attività sia demandato ad altre categorie professionali. Il TAR riferisce ancora che i ricorrenti pervengono alla conclusione secondo cui la mancata previsione di idonei criteri di valutazione della competenza degli organismi di mediazione porrebbe il regolamento impugnato in palese contrasto «non tanto con l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma piuttosto con i principi generali e l’insieme delle disposizioni dell’intero impianto legislativo considerato». Aggiunge che, ad avviso dei ricorrenti, gli artt. 5 e 16 del d.lgs. citato non sfuggirebbero a censure di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 77 e 24 Cost. In particolare l’art. 5, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità, rilevabile anche di ufficio, della domanda giudiziale in riferimento alle controversie in esso indicate, precluderebbe l’accesso diretto alla giustizia, disattendendo le previsioni del principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, che lo tutela. L’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ponendo quali criteri di selezione degli organismi abilitati alla mediazione la «serietà ed efficienza», liberalizzerebbe il settore, contravvenendo sia all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE, sia all’art. 60, comma 3, lettera b), della legge citata, che fanno riferimento ai criteri della competenza e della professionalità. 1.2.— Con riferimento, invece, al ricorso n. 11235 del 2010, il rimettente si sofferma sui tre motivi di impugnazione e sulle eccezioni di illegittimità costituzionale, ritenendo rilevante soltanto quella sollevata con riferimento al primo motivo (illegittimità derivata dalla illegittimità degli artt. 5 e 17 – recte: 16 – del d.lgs. n. 28 del 2010, in relazione agli artt. 24, 76 e 77 Cost.); anche la ricorrente UNCC sostiene che il legislatore sia incorso in eccesso di delega là dove ha previsto l’obbligatorietà del procedimento di mediazione e l’improcedibilità del giudizio introdotto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega. Ciò premesso, il TAR osserva come punto centrale della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, «nonché qualificante espressione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, alla luce delle prime due doglianze di cui al ricorso», sia la «dedotta omissione, da parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento, dei criteri volti a delineare i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore». L’illegittimità di tale omissione – ad avviso del rimettente – andrebbe apprezzata alla luce delle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art. 60 della legge n. 69 del 2009. L’art. 16 del citato decreto legislativo, di cui il regolamento costituisce attuazione, avrebbe trascurato la valenza di detti requisiti, quelli appunto di competenza e professionalità, sostituendoli con altri, quelli di serietà ed efficienza, che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisferebbero le esigenze considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale delegante. Osserva il rimettente come i requisiti di competenza e professionalità sarebbero, invece, insopprimibili, soprattutto se si considera che, per un vasto ventaglio di materie, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, anch’esso sospettato di illegittimità costituzionale, rende l’esperimento della mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il giudice a quo, poi, al fine di risolvere in via ermeneutica il problema della sovrapponibilità dei concetti di competenza e professionalità, nonché serietà ed efficienza, non trascura il tentativo di sottoporre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 e l’art. 16 del d.lgs. citato ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tenendo conto della necessità di una stretta continuità e coerenza delle disposizioni, anche in relazione all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE. Il TAR, però, ritiene tale interpretazione non praticabile, in quanto essa «non esaurirebbe che in misura molto limitata l’ambito delle questioni sottoposte a giudizio, lasciando aperto l’interrogativo circa il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intenda effettivamente affidare alla mediazione, là dove è proprio la puntuale individuazione di tale ruolo ad essere imprescindibilmente pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che è legittimo richiedere al mediatore o da cui è legittimamente consentito prescindere». Secondo il rimettente, infatti, «una cosa è la costruzione della mediazione come strumento cui lo Stato in un vasto ambito di materie obbligatoriamente e preventivamente rimandi per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio; altra cosa è la costruzione della mediazione come strumento generale normativamente predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando pur tuttavia impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del privato ad adirla ed a sopportare i relativi effetti e costi». Ad avviso del rimettente, dunque, l’esame delle doglianze proposte in relazione al regolamento n. 180 del 2010 non potrebbe prescindere dall’accertamento della correttezza, in raffronto ai criteri della legge-delega e ai precetti costituzionali, tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal legislatore delegato, e in particolare dalla verifica della correttezza delle seguenti disposizioni: dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, il quale ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità che attengono essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica e che sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici o professionali di carattere qualificatorio, ovvero strutturale; dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, che ha configurato, per le materie ivi previste, l’attività dei mediatori come insopprimibile fase processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti rinforzati e in quanto tale suscettibile in ogni suo sviluppo o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi anche là dove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la giustizia ordinaria; dell’intero d.lgs. n. 28 del 2010 nel quale si rinvengono, ad avviso del rimettente, elementi che farebbero emergere due scelte di fondo: l’una, mirante alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e l’altra alla enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie. Tali scelte, poi, non risulterebbero in armonia con un’altra opzione fatta propria dal decreto delegato: è, infatti, previsto che l’atto, il quale conclude la mediazione, sottoposto ad omologazione, possa acquistare efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12 del d.lgs. citato), rientrando a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali, là dove nel corso della mediazione, ed ai sensi del decreto legislativo stesso, il profilo della competenza tecnica del mediatore sbiadisce e anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna ovvero come generale limite alla convenienza delle posizioni giuridiche in essa coinvolte (divieto di omologare accordi contrari all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del d.lgs.). Il rimettente ritiene necessario che l’interpretazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, propedeutica all’esame dell’impugnata disposizione di cui all’art. 4 del regolamento, sia correlata con quanto previsto dall’art. 5 dello stesso decreto, «il cui combinato disposto costituisce il vero perno della regolazione delegata». Il Collegio ritiene, dunque, che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. citato si porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., in quanto non possono essere ascritte all’art. 60 della legge delega, atteso che non è possibile rilevare alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei sensi delle dette previsioni; e questo per i motivi di seguito indicati: a) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e nessun’altra disposizione di detto articolo assumerebbe espressamente l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale; b) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria: detto tema non potrebbe ritenersi rientrare nell’ambito di libertà, ovvero nell’area di discrezionalità connessa alla legislazione delegata, in quanto non costituirebbe né un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo, e ciò sia che si tratti di recepire la direttiva comunitaria n. 2008/52/CE, sia che si tratti della riforma del diritto civile. Inoltre, il rimettente osserva come, tenuto conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato necessario che l’art. 60 della legge citata avesse lasciato trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti. Secondo il rimettente, poi, si dovrebbe escludere che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 con la locuzione di cui al comma 2, ovvero regolare la riforma «nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria», e con il principio e criterio direttivo posto alla lettera c) del comma 3, ovvero «disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria», possa essere inteso quale delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva più volte citata, che il Governo non è stato neanche chiamato a recepire. Il TAR si sofferma, poi, sul rapporto tra la direttiva 2008/52/CE e la norma di delega, ponendo in rilievo le seguenti disposizioni: in primo luogo, la scelta compiuta dall’art. 60 della legge citata, ossia quella di estendere le normative comunitarie sulla mediazione anche ai procedimenti ricadenti nell’ordinamento nazionale (ciò alla luce dell’ottavo Considerando) non limitandola solo alle controversie transfrontaliere; la disposizione di cui all’art. 3, lettera a), della direttiva stessa, secondo cui gli Stati devono valutare se il procedimento di mediazione debba essere «avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro»; l’art. 5, paragrafo 2, secondo cui la direttiva lascia «impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario», tenendo conto del limite costituito dalla necessità che «non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario» (art. 5, comma 2, della direttiva citata). Pertanto, osserva il rimettente, le ricadute della scelta estensiva dell’istituto della mediazione, consistente nel prevederne l’applicazione anche alle controversie oggetto dei procedimenti interamente ricadenti nell’ordinamento interno, sono molteplici ed attengono alle varie modalità con cui tale estensione, salvaguardando l’accesso alla giustizia, può essere effettuata nei singoli ordinamenti ed in primis all’opzione di rendere il ricorso alla mediazione «prescritto dal diritto», quindi obbligatorio e «soggetto a sanzioni». Ad avviso del TAR, se anche l’art. 60 della legge delega avesse avuto un intento integralmente recettivo della direttiva n. 2008/52/CE, il silenzio del legislatore delegante su tali ultime opzioni non potrebbe avere, alla luce della doverosa interpretazione della delega ai sensi degli artt. 24 e 77 Cost., «il significato di assentire la meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che, rispetto al diritto di difesa, appaiono le più estreme, ovvero la “prescrizione di diritto” per talune materie dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e la predisposizione della “massima sanzione” per il suo eventuale inadempimento, qual è l’improcedibilità rilevabile anche di ufficio come, al contempo, ha fatto l’art. 5 del decreto delegato». Il rimettente osserva, ancora, come nessun elemento decisivo possa trarsi dal principio e criterio direttivo previsto dalla lettera a) del comma 3, dell’art.60, della legge delega, là dove dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere l’accesso alla giustizia», in quanto il legislatore, utilizzando tale ultima espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio assoluto e primario dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello comunitario. Il giudice a quo ritiene, infatti, che, se da un lato sia vero che potrebbe non ritenersi precluso ex se l’accesso alla giustizia dalla previsione di una fase pre-processuale obbligatoria, perché, anche se così conformata, essa lascerebbe aperta la facoltà di adire la via giurisdizionale, sarebbe altresì vero che «non tutto ciò che è in via generale permesso all’autorità delegante può ritenersi anche consentito alla sede delegata». Ciò premesso, ad avviso del rimettente, pur potendosi ammettere che le prime tre disposizioni dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. citato, isolatamente considerate, non siano in contrasto con l’art. 24 Cost., alla stessa conclusione potrebbe non pervenirsi tenendo conto degli effetti derivanti dal loro coordinamento con altre disposizioni dello stesso decreto legislativo ed in particolare con l’art. 16 di esso. Posto, dunque, che i criteri e principi direttivi finora considerati appaiano neutrali al fine di verificare la rispondenza dell’art. 5 del d.lgs. alla legge delega, il rimettente osserva come ben due principi e criteri direttivi depongano, invece, a favore proprio della previsione della facoltatività della procedura. È, in primo luogo, posta in rilievo la lettera c) del comma 3, dell’art. 60, della legge delega, la quale prevede che la mediazione sia disciplinata anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, ad avviso del giudice a quo, farebbe escludere che la scelta del carattere obbligatorio della mediazione possa essere ascritta alla legge-delega; l’art. 40, comma 6, del d.lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogato dall’art. 23 d.lgs. n. 28 del 2010), infatti, solo se «il contratto ovvero lo statuto della società prevedano una clausola di conciliazione e il tentativo non risulti esperito» stabiliva che «il giudice su istanza della parte interessata proposta nella prima difesa dispone la sospensione del procedimento pendente davanti a lui fissando un termine di durata compresa tra trenta e sessanta giorni per il deposito dell’istanza di conciliazione davanti ad un organismo ovvero a quello indicato dal contratto o dallo statuto». Da ciò conseguirebbe che il modello legale valorizzato dall’art. 60 della legge delega, mediante il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, sarebbe quello delineato da norme di fonte volontaria privata, contratto o statuto sociale, nel senso che sarebbe rimesso ad un momento volontario privato, cioè alla facoltà della parte che vi ha interesse e non alla forza cogente della legge, far constatare nel giudizio già avviato, ed entro termini stabiliti, la sussistenza di una clausola conciliativa ed il mancato esperimento della conciliazione. Il rimettente osserva che nulla muta considerando che il decreto delegato n. 28 del 2010, al comma 2 dello stesso art. 5, affianca al meccanismo sospetto di illegittimità costituzionale un meccanismo coincidente con quello di cui al d.lgs. n. 5 del 2003, in forza del quale è il giudice adito, anche in sede di appello, che, valutati una serie di elementi, invita le parti a procedere alla mediazione e differisce la decisione giurisdizionale: tale disposizione, infatti, tiene comunque «fermo quanto previsto dal comma 1». Ad avviso del TAR, il comma 2 ora menzionato farebbe rilevare maggiormente la incisività della diversa scelta compiuta dal legislatore delegato al comma 1 dello stesso articolo, di subordinare, nelle materie ivi previste, il diritto di difesa in giudizio all’esperimento della mediazione, rendendo ancora più pressante l’esigenza che di una siffatta scelta si individui il preciso fondamento nella legge delega. In secondo luogo, il rimettente pone in rilievo la lettera n) del più volte citato art. 60 della legge delega; tale disposizione prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima della instaurazione del giudizio, della «possibilità» e non dell’obbligo di avvalersi della conciliazione. Al riguardo il giudice a quo rileva che la possibilità è, ovviamente, diversa dalla obbligatorietà e l’accentuazione di tale differenza non sarebbe superflua, vertendo nel campo della deontologia professionale, ovvero in un complesso di obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico (art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 28 del 2010), che richiedono l’esatta individuazione del precetto presidiato dalle sanzioni. Infatti, l’art. 4 del d.lgs. citato differenzia, al comma 3, l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione, da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui l’espletamento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; ciò anche se, poi, il medesimo comma 3 dell’art. 4 non diversifichi la sanzione concernente le due ipotesi, entrambe ricondotte all’unica categoria della «violazione degli obblighi di informazione» e all’annullabilità del contratto intercorso tra l’avvocato e l’assistito «nonostante la maggiore pregiudizievolezza della seconda». Il TAR si sofferma, poi, sulle difese formulate dalle amministrazioni resistenti, secondo cui lo schema procedimentale seguito sarebbe quello dell’art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari), in tema di controversie agrarie. Al riguardo, il Collegio ritiene che tale argomentazione non sia da condividere, in quanto la risalente legge ora citata, che configura un meccanismo in forza del quale il previo esperimento del tentativo di conciliazione assume la condizione di presupposto processuale, la cui carenza preclude al giudice adito di pronunciare nel merito della domanda, oltre a concernere le limitatissime (rispetto alle materie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) ipotesi di contratti agrari, non è menzionata in alcuna parte della legge delega che invece, come più volte rilevato, richiama la diversa fattispecie del già citato d.lgs. n. 5 del 2003. Alla luce di quanto argomentato, il TAR rimettente ritiene che l’art. 5, comma 1, e segnatamente il primo, il secondo ed il terzo periodo, nonché l’art. 16, comma 1, del d.lgs. citato, là dove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione debbano essere gli enti pubblici e privati che diano garanzie di serietà ed efficienza, siano in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. In particolare, la violazione dell’art. 24 Cost. sussisterebbe «nella misura in cui [dette disposizioni] determinano, nelle considerate materie, una incisiva influenza da parte di situazioni preliminari e pregiudiziali sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale, su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce. Ciò in quanto esse non garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore, che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio». Sussisterebbe il contrasto anche con l’art. 77 Cost., atteso il silenzio serbato dal legislatore delegante in tema di obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, nonché tenuto conto del grado di specificità di alcuni principi e criteri direttivi fissati dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che risultano in contrasto con le disposizioni stesse. I principi e criteri direttivi di cui alle lettere c) e n) del comma 3, dell’art. 60 della legge citata, ad avviso del rimettente, porterebbero ad escludere che l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, possa rientrare nella discrezionalità affidata alla legislazione delegata, quale mero sviluppo o fisiologica attività di riempimento della delega, anche tenendo conto della sua ratio e della sua finalità, nonché del contesto normativo comunitario al quale è ricollegabile. 2.— Con atto depositato in data 20 dicembre 2011, si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – OUA, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, l’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona dei rispettivi presidenti pro tempore, i quali agiscono anche in proprio, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata. Gli esponenti, nel ribadire le argomentazioni del TAR, rilevano, con riferimento alla violazione dell’art. 77 Cost., che l’art. 60 della legge delega al comma 3, lettera a), nel prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere l’accesso alla giustizia», non introdurrebbe un aspetto neutrale (come sembra, invece, affermare il TAR), ma piuttosto avrebbe richiesto che il procedimento di mediazione non fosse costruito quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, pena una pesante limitazione alla immediata accessibilità alla giustizia ed una altrettanto incisiva compromissione dell’effettività e tempestività della tutela giudiziale. Al di là della stessa previsione della legge-delega, nell’ambito dell’ordinamento comunitario, la direttiva 2008/52/CE, nel disciplinare alcuni aspetti della mediazione civile e commerciale, al quattordicesimo Considerando, ha stabilito che l’istituto della mediazione non debba essere configurato in modo da impedire alle parti «di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario». La previsione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, non troverebbe aderenza non solo nel contesto normativo nazionale, ma anche in quello comunitario. Quanto al contrasto con l’art. 24 Cost., le parti osservano come la Corte costituzionale, sin dagli anni ’50, abbia ritenuto che detta norma vada intesa non solo nel senso di apprestare la possibilità, in capo ai cittadini, di far valere le proprie ragioni in un giudizio, ma ancor più di garantire la difesa tecnica (a tal fine è richiamata la sentenza n. 46 del 1957). Ebbene, tale difesa non sarebbe assicurata nel caso di specie, in cui l’accesso alla giustizia non resterebbe soltanto subordinato e, dunque, ritardato dall’esperimento obbligatorio di un tentativo di conciliazione, ma sarebbe gestito da soggetti non adeguatamente formati e privi della necessaria competenza tecnico-giuridica, mentre l’intero procedimento di mediazione sarebbe, invece, costruito sul presupposto della piena conoscenza, competenza e perizia nelle discipline giuridiche. In tal senso rileverebbero non solo gli artt. 12 e 13 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma anche l’art. 8, comma 5, del medesimo decreto, nella parte in cui prevede che la mancata partecipazione al procedimento possa valere come argomento di prova nel successivo eventuale processo. Sarebbe evidente, dunque, che le parti debbano essere rese edotte da un soggetto competente ed esperto delle conseguenze processuali delle loro scelte; ne consegue che tale soggetto non potrebbe che essere un avvocato. Secondo gli esponenti, poiché l’istituto della mediazione si pone l’obiettivo di addivenire ad una composizione delle rispettive posizioni giuridiche, al pari del sistema giurisdizionale dovrebbe consentire ai cittadini di fruire delle medesime garanzie di tutela. 3.— Con atto depositato in data 12 gennaio 2012, si sono costituite in giudizio «l’Associazione degli Avvocati Romani» e l’Associazione «Agire e informare», parti intervenute ad adiuvandum nel giudizio a quo. Dette associazioni, nel riservarsi di presentare memorie illustrative e nel fare integralmente proprie le motivazioni poste a sostegno dell’ordinanza di rimessione, rappresentano che, dopo tale ordinanza, con risoluzione del Parlamento europeo in data 13 settembre 2011, circa l’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, pur apprezzando lo sforzo intrapreso in ambito nazionale per introdurre una disciplina dell’istituto, si è «ciò nonostante sottolinea[to] che la mediazione dovrebbe essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria». Ad avviso delle intervenienti, ciò confermerebbe il dubbio di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, le quali in concreto rendono la mediazione «elemento obbligatorio» della procedura giudiziaria, però sottoposta a modalità liberalizzate, nei sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, contrastanti con l’art. 24 Cost. e non conformi ai principi e ai criteri direttivi fissati dalla legge delega. 4.— Con atto depositato in data 12 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., parte intervenuta ad opponendum nel giudizio a quo la quale, riservandosi di presentare memorie e produrre documenti, ha chiesto di voler dichiarare manifestamente infondata ed inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza del 12 aprile 2011 dal TAR Lazio. 5.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata. Ad avviso dell’esponente la legge delega, nell’indicare che la mediazione non avrebbe dovuto precludere l’accesso alla giustizia, intendeva far riferimento non alla possibilità di adire il giudice dopo la mediazione, «cosa scontata e ovvia», bensì alla necessità che essa non condizionasse il diritto di azione e, quindi, non fosse costruita come condizione di procedibilità. Si osserva come sia circostanza del tutto evidente che, dopo il procedimento di mediazione, la parte possa adire il giudice, poiché sarebbe impensabile che nell’ordinamento, dopo una condizione di procedibilità, non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale. Né, in senso contrario, potrebbe obiettarsi che il problema non si pone in considerazione della brevità del termine di quattro mesi, cosicché la condizione di procedibilità sarebbe compensata dal termine breve fissato nell’art. 6 del d.lgs. n. 28 del 2010; il termine di quattro mesi era già stato fissato nella lettera q) del comma 3, dell’art. 60 della legge delega, la quale al tempo stesso richiedeva che la mediazione fosse tale da non precludere l’accesso alla giustizia. Per quanto concerne l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’AIAF osserva come l’art. 24 Cost. non possa dirsi rispettato, in quanto la figura del mediatore non è stata conformata in modo da garantire alle parti una adeguata informazione. 6.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, è intervenuto nel presente giudizio di costituzionalità il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, interveniente ad adiuvandum nel giudizio a quo, il quale nel ribadire e far proprie le argomentazioni formulate dal TAR rimettente, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata. 7.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Unione Nazionale delle Camere Civili la quale, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle del TAR, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata. 8.— Con atto depositato in data 17 gennaio 2012, si sono costituiti nel presente giudizio il Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate. I detti ministri rilevano come la mediazione obbligatoria sia prevista e ammessa dalla direttiva comunitaria, alla quale dà attuazione il d.lgs. n. 28 del 2010 in forza della delega di cui all’art. 60 della legge n. 69 del 2009, norma che richiama espressamente tale normativa comunitaria; deve, pertanto, escludersi che il legislatore sia incorso nel denunciato vizio di eccesso di delega. A tal fine è evocata la sentenza n. 276 del 2000 in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro. In detta occasione la Corte costituzionale affermò l’insussistenza del vizio di eccesso di delega, benché la legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), non prevedesse l’obbligatorietà della conciliazione. La Corte costituzionale affermò, altresì, l’assenza di contrasto con l’art. 24 Cost. in virtù del principio per cui «la tutela del diritto di azione non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti». In quel caso, osservano i resistenti nel giudizio a quo, la Corte individuò tali «interessi generali» sia nell’evitare che l’incremento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provocasse un sovraccarico dell’apparato giudiziario, sia nel favorire «la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quelle conseguite attraverso il processo». Ciò posto, la difesa dello Stato ritiene che «gli interessi generali» devono ritenersi perseguiti anche dalla norma in esame, specialmente con riferimento al secondo di detti «interessi», ove si consideri che l’elemento che caratterizza la mediazione è dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti e ragioni. Anche per quanto concerne la violazione dell’art. 24 Cost., l’Avvocatura osserva come detta censura sveli un approccio non corretto all’istituto in esame. La mediazione ed il processo ordinario di cognizione, ad avviso dell’esponente, si muovono su piani completamente diversi che non interferiscono tra loro (se non sotto il profilo della disciplina delle spese giudiziali e degli argomenti di prova che il giudice può desumere dalla mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione) ed è errato confondere il piano del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost. (così come dal diritto sovranazionale), con il piano della mediazione che non è «rinuncia alla giurisdizione», ma semplicemente un modo attraverso il quale le parti, in presenza di una lite insorta o che sta per insorgere, risolvono la stessa cercando un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi. Ne consegue che imporre il tentativo di conciliazione non significa né rinunciare alla giurisdizione, né ostacolarla: le parti non sono tenute ad accordarsi, mentre i tempi contenuti entro i quali il tentativo di conciliazione deve svolgersi non possono pacificamente rappresentare un ostacolo alla giurisdizione. Quanto al timore che i diritti «siano definitivamente conformati», l’Avvocatura precisa che il mediatore, sentite le diverse prospettazioni del conflitto, ha il compito di avviare il dialogo che la conflittualità può avere impedito e ciò allo scopo di aiutare a trovare un accordo che non costituisce accertamento della verità, ma individuazione di un punto di equilibrio soddisfacente per entrambe le parti. La circostanza, poi, che l’accordo sia anche titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale non può indurre a concludere che detto accordo non possa essere equiparato, come si è ora fatto, a qualsiasi altro contratto o negozio. L’accordo è titolo esecutivo così come lo sono la cambiale, l’assegno bancario, gli altri titoli stragiudiziali che non presuppongono necessariamente un accertamento di verità. Quanto alla questione di legittimità costituzionale che attiene all’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’Avvocatura osserva, in via preliminare, che la censura deve ritenersi superata per effetto dell’entrata in vigore del decreto del Ministro della giustizia 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante modifica al decreto del Ministro della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell'elenco dei formatori per la mediazione, nonché sull'approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell'articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010), il quale ha modificato il decreto n. 180 del 2010, per cui gli atti devono essere rimessi al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale. In ogni caso, l’Avvocatura afferma che se anche non fosse stato introdotto il correttivo citato la censura sarebbe comunque infondata. Premesso che la norma denunciata [recte: art. 18 del d.m. n. 180 del 2010] prevede per il mediatore «un percorso formativo non inferiore a cinquanta ore» e un percorso di aggiornamento «non inferiore a diciotto ore», modulando l’iter formativo in modo da assicurare «elevati livelli di formazione», si osserva come l’accordo al quale mira la mediazione sia una sistemazione negoziale, che può anche avere la veste di una transazione, con la quale le parti dettano una regola per disciplinare il loro rapporto e con la quale superano il conflitto a prescindere dal riconoscimento di torti e ragioni. Al mediatore, quindi, non sarebbe richiesto di pronunciarsi sulla fondatezza di una pretesa in forza di una norma da applicare; costui potrà formulare una proposta, ma saranno, poi, le parti a realizzare l’atto dispositivo espressione della loro autonomia negoziale. Al mediatore non sarebbe richiesta necessariamente una specifica preparazione tecnico-giuridica, così come è lasciata alla libera determinazione delle parti la stipulazione di contratti in materia di diritti disponibili, per la cui conclusione non è richiesta alcuna assistenza tecnica. Ad avviso dell’Avvocatura, infine, «professionalità dell’organismo» (efficiente organizzazione e servizio) e «competenza del mediatore» sono aspetti del tutto diversi che non possono essere confusi, come invece sembra fare il rimettente. 9.— Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile; nonché questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010. Con provvedimento del 4 ottobre 2012 la discussione del presente giudizio, già prevista per la camera di consiglio del 24 ottobre 2012, è stata anticipata all’udienza del 23 ottobre 2012. In punto di fatto il rimettente espone di essere investito di una controversia in tema di servitù prediali. Ciò premesso, il rimettente, dopo aver rilevato la mancata instaurazione del procedimento di mediazione e dopo aver analiticamente riportato le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dall’attrice, solleva il dubbio di costituzionalità nei termini di seguito indicati. Per quanto attiene alla questione dedotta con riferimento all’art. 2653, cod. civ., il rimettente osserva che le domande giudiziali concernenti i diritti reali possono essere trascritte, ai sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ. La sentenza pronunciata contro il convenuto indicato nella trascrizione ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno formulato una domanda diretta all’accertamento dell’esistenza, in favore del loro fondo ed a carico di quello dei convenuti, di una servitù di passaggio, nonché all’accertamento della violazione del diritto a loro spettante in base ad essa ed alla eliminazione degli effetti del denunciato abuso. Si tratterebbe, dunque, di un’azione rientrante nell’art. 1079 cod. civ., in relazione alla quale, a sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ., è richiesta la trascrizione. Il Tribunale osserva, altresì, come la mancata trascrizione della domanda giudiziale, a prescindere dalla trascrizione del titolo costitutivo della servitù, importerebbe l’inopponibilità della sentenza nei confronti di chi acquisti il fondo servente nel corso del processo e che abbia trascritto il suo titolo «senza che possa rilevare che a suo tempo sia stato regolarmente trascritto l’atto costitutivo della servitù, con la conseguenza che il terzo acquirente è legittimato a proporre contro la detta sentenza pronunciata in giudizio, a cui è rimasto estraneo, l’opposizione di terzo ex art. 404 cod. proc. civ.» (è evocata la sentenza della Corte di cassazione del 23 maggio 1991, n. 5852). Ciò posto, il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva che non è possibile trascrivere la domanda di mediazione in quanto l’art. 2653 cod. civ. contiene un elenco tassativo ed ha riguardo, unicamente, alle domande giudiziali; né sarebbe possibile trascrivere il verbale di mediazione, essendo prevista unicamente la possibilità di trascrivere l’accordo conclusivo, previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a tanto autorizzato. Da ciò conseguirebbe, ad avviso del Collegio, che per i diritti reali la mediazione dovrebbe essere sempre doppiata dal giudizio ordinario, nella forma tradizionale o nelle forme dell’art. 702-bis cod. proc. civ., atteso che, in caso contrario, l’attore vittorioso non potrebbe comunque trascrivere direttamente né il verbale di avvenuta positiva mediazione, se non previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a ciò abilitato, né soprattutto giovarsi dell’effetto cosiddetto prenotativo della domanda di mediazione, non trascrivibile. Da ciò conseguirebbe, inoltre, che l’attore dovrebbe presentare istanza di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda, iniziare comunque un giudizio trascrivendo la domanda giudiziale, ed a prescindere dall’esito della mediazione, chiedere una pronunzia giurisdizionale di merito; ciò perché non potrebbe né trascrivere direttamente il verbale di mediazione, né soprattutto giovarsi dell’effetto prenotativo della domanda, in quanto tale effetto sarebbe limitato ai casi in cui la trascrizione della domanda stessa sia seguita dalla pronuncia di una sentenza o di un provvedimento giurisdizionale analogo alla stessa, come appunto l’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter cod. proc. civ. La conseguenza in questi casi sarebbe che il soggetto procedente si troverebbe costretto a sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza in ogni caso potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione. Il rimettente, poi, si sofferma sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. per avere essi previsto una mediazione obbligatoria di tipo oneroso. Il carattere oneroso, quale risultante dal combinato disposto delle norme indicate, contrasterebbe con l’art. 24 Cost. in quanto condizionerebbe al pagamento di una somma di denaro l’accesso al giudice. La conclusione, secondo cui la previsione della mediazione obbligatoria onerosa sia in contrasto con l’art. 24 Cost., troverebbe conferma nel principio espresso nella sentenza n. 67 del 1960, secondo cui la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato del procedimento, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali. Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la censura rivolta nei confronti dell’art. 5 del d.lgs. citato e dell’art. 16 del d.m., là dove prevedono «che il solo convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione» in quanto introducono una disparità di trattamento tra attore e convenuto, atteso che per l’attore non è prevista la possibilità di rinunciare ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio, sia delle spese di mediazione. Il rimettente, infine, ritiene la sussistenza di un altro profilo di illegittimità dell’art. 5 del d.lgs. nella parte in cui prevede la mediazione obbligatoria solo per alcuni gruppi di materie e non per altre, sia pure caratterizzate dalla disponibilità dei diritti sottostanti. Sarebbe il caso della mediazione immobiliare, sottratta alle materie per le quali è prevista la mediazione obbligatoria o, con riferimento al caso di specie, alla domanda volta a dichiarare la nullità o pronunciare l’annullamento di un contratto costitutivo di servitù. Tale domanda, non rientrando nei blocchi di materie di cui all’art. 5 del d.lgs. citato, potrebbe essere direttamente azionata in giudizio, attenendo ad un contratto per il quale non è prevista la mediazione obbligatoria (questa, infatti, è prevista solo per i contratti assicurativi, bancari e finanziari); al contrario, la domanda di accertamento o declaratoria di servitù, involgendo diritti reali, rientrerebbe appieno nelle materie soggette a mediazione obbligatoria. Il rimettente ritiene che tale differenziazione non sia giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa. 10.— Con atto del 26 giugno 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. In primo luogo, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede l’obbligatorietà della mediazione solo in relazione a determinate controversie, in quanto la causa oggetto del giudizio principale concerne una domanda di accertamento di servitù, senza dubbio rientrante tra quelle per le quali l’art. 5 del d.lgs. citato prevede la mediazione come obbligatoria. In ogni caso, si osserva come la questione sia, altresì, non fondata versandosi in tema di scelte discrezionali del legislatore, che possono essere non condivisibili, ma non viziate da irragionevolezza. Ciò posto, la difesa dello Stato ritiene non fondate le censure relative all’art. 5 del d.lgs. citato e all’art. 2653 cod. civ., in quanto le finalità cui mirano i due istituti sono diverse; pertanto il soggetto che vuole conseguire gli effetti della trascrizione della sua domanda, ovvero l’efficacia cosiddetta prenotativa della stessa, deve necessariamente anche iscrivere la causa a ruolo per trascrivere detta domanda, ma non per questo la norma deve essere ritenuta affetta da illegittimità costituzionale. Per quel che concerne la doglianza mossa con riferimento al carattere oneroso della mediazione, la difesa dello Stato ne deduce la non fondatezza, richiamando il principio, affermato nella decisione di questa Corte n. 114 del 2004, secondo cui non può ragionevolmente ritenersi estraneo alla finalità del miglior andamento della giustizia un costo avente la funzione di fornire al cittadino un servizio finalizzato alla soluzione della lite e che persegue l’interesse pubblico di restituire alla decisione dell’autorità giudiziaria il ruolo di extrema ratio. La mediazione – ad avviso dell’Avvocatura – mira ad evitare che ogni controversia si trasformi in contenzioso giudiziario e ciò in ossequio al principio di proporzionalità nell’utilizzo delle risorse giudiziarie che ha una ricaduta sia sui costi a carico della collettività, sia sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo. La difesa dello Stato, poi, non condivide l’opinione secondo cui, nel caso della mediazione, vi sarebbe un esborso non destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura privata; al riguardo, l’Avvocatura rileva che il nostro sistema giudiziario si basa sulla pressoché totale obbligatorietà della difesa tecnica in giudizio e non conosce forme di difesa «pubblica» ed, ancora, che i due termini «obbligatoria e onerosa» riferiti alla mediazione possono convivere non solo nel nostro sistema costituzionale, ma anche in quello comunitario. È, altresì, richiamata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella quale, dopo avere qualificato «legittimi obiettivi di interesse generale […] una definizione spedita delle controversie nonché un decongestionamento dei tribunali», si è affermato che rispetto a questi obiettivi «non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che la introduzione di una procedura meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi» (sentenza del 28 marzo 2010 nelle cause riunite da C-317 a C-320/08). Tutto ciò, peraltro, non esime il legislatore dallo strutturare l’onere economico di cui si tratta in termini di ragionevolezza ed al riguardo la difesa dello Stato ritiene che il canone di ragionevolezza sia stato rispettato. In proposito, la difesa dello Stato osserva che gli importi minimi delle indennità per ciascuno scaglione di riferimento non solo sono derogabili (art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, come modificato dal decreto ministeriale n. 145 del 2011), ma nei casi di mediazione prevista come condizione di procedibilità l’importo massimo delle spese di mediazione deve essere ridotto di un terzo per i primi sei scaglioni e fino alla metà per i restanti quattro. Sono previsti, inoltre, degli incentivi: tutti gli atti, documenti e provvedimenti sono esenti da bollo, spese, tasse e/o diritti, mentre il verbale di accordo è esente da imposta di registro sino al valore di 50.000,00 euro. In caso di successo, inoltre, vi è un credito di imposta per entrambe le parti sino a 500,00 euro, credito che si riduce alla metà in caso di insuccesso (art. 20). Infine, ad avviso della difesa dello Stato, il costo di un procedimento giudiziario è molto più elevato, anche senza considerare la possibilità di tre gradi di giudizio. Con riferimento alla censura sollevata in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost., in quanto si introdurrebbe una disparità di trattamento tra attore e convenuto, la difesa dello Stato ritiene che la circostanza secondo cui l’onere economico dell’avvio e della mediazione rimangono a carico del solo attore, in caso di mancata comparizione del chiamato, è «la naturale conseguenza di condotte processuali diverse: né potrebbe prevedersi un obbligo per il chiamato in mediazione di comparire alla stessa, così come non potrebbe prevedersi l’obbligo per il convenuto di costituirsi in giudizio». Peraltro, la mancata partecipazione del chiamato senza giustificato motivo, ad avviso dell’Avvocatura, non rimarrebbe priva di conseguenze, anche di rilievo economico, posto che tale condotta sarebbe valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., così come stabilito dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010. 11.— Il Giudice di pace di Parma, con ordinanza del 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010. Il rimettente premette di dover giudicare in una causa civile avente ad oggetto una «domanda di pagamento in materia di locazione di beni mobili, rientrante nella previsione normativa di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, per la quale è previsto il preliminare procedimento di mediazione a pena di improcedibilità». II giudice a quo dà atto che l’attrice ha omesso di svolgere il detto procedimento ed ha eccepito alcune questioni di legittimità costituzionale di cui dà conto nell’ordinanza. Ciò premesso, il rimettente, dopo aver riepilogato il quadro normativo di riferimento, ritiene che le disposizioni sopra indicate risultino in contrasto con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste, l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e per ciò stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». In particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione tecnica o professionale»; sicché, «in difetto di una adeguata definizione della figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase preliminare del procedimento di mediazione». Il rimettente ritiene, inoltre, che dette disposizioni siano in contrasto anche con l’art. 77 Cost., posto che «il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed anzi alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui alle lettere c) e n) del comma 3 dell’art. 60, dovrebbe escludersi che l’obbligatorietà del procedimento di mediazione possa rientrare nella discrezionalità tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di riferimento». 12.— Con atto depositato in data 23 dicembre 2011, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento, da parte del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico, in relazione alla questione sollevata con r.o. n. 268 del 2011. 13.— Il Giudice di pace di Recco, con ordinanza del 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale «dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e art. 16 D.M. n. 180/10, da soli ed anche in combinato disposto, nelle parti e per il motivo che creano ostacoli all’esercizio dell’azione, che eliminano la tutela giudiziaria per i meno abbienti, che ledono il principio di ragionevole durata del processo e che creano disparità di trattamento per situazioni analoghe». In punto di fatto, il rimettente riferisce che deve pronunziare in «una controversia non priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione che tuttavia in quanto basata su risultanze documentali sarebbe stata decisa in quindici giorni». Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che le disposizioni indicate siano in contrasto con l’art. 24 Cost. «in relazione ai tempi del processo», in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ciò ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi obbligatori di conciliazione, prevedenti termini di espletamento più brevi: 30 giorni in materia di subfornitura e telecomunicazione, 60 giorni in materia di lavoro e contratti agrari, 90 giorni in tema di diritto d’autore; nonché in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, sottolineando come «tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima». Dette disposizioni sarebbero, altresì, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina dei costi della mediazione introdurrebbe una disparità di trattamento tra meno abbienti ed abbienti; infatti, sebbene sia stato previsto il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la disparità di trattamento, comunque, rimarrebbe in relazione a quei soggetti che, pur non rientrando tra coloro che possono beneficiare del patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate per cui, dopo aver già sostenuto un costo per una causa, un ulteriore costo per una mediazione dall’esito incerto diverrebbe insostenibile e finirebbe per costituire un deterrente dall’agire in giudizio. Ad avviso del rimettente, ancora, sussisterebbe il contrasto con l’art. 111 Cost. sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’esperimento della mediazione dilaterebbe i tempi di esso senza che ciò sia giustificato da esigenze specifiche ed anche perché l’esperimento obbligatorio della mediazione dovrebbe effettuarsi non solo con riferimento alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del processo. Dette disposizioni, infine, violerebbero l’art. 3 Cost., per irragionevolezza della previsione della obbligatorietà della mediazione avente ad oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, dal momento che, nel procedimento avanti al detto giudice, è già previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione. 14.— Con atto depositato in data 3 aprile 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. La difesa dello Stato, dopo avere riassunto il quadro normativo di riferimento, si sofferma sulle censure del rimettente, ponendo in rilievo come l’elemento che caratterizza la mediazione sia dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti o ragioni. Per quanto attiene alle doglianze concernenti l’onerosità della mediazione, la difesa dello Stato invoca la sentenza di questa Corte n. 114 del 2004, la quale richiama principi già illustrati nelle pronunce n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001, ribadendo le argomentazioni precedentemente svolte. In ogni caso, l’Avvocatura rileva che la mediazione non può definirsi «onerosa» per le parti se raffrontata con il costo di un giudizio ordinario e con la speditezza nell’esercizio dell’azione; si tratterebbe, peraltro, di costi estremamente contenuti soprattutto se si considera che il procedimento consente di realizzare un ben maggiore risparmio ed, inoltre, che è gratuito per i cittadini i quali possono usufruire del patrocinio a spese dello Stato. 15.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con ordinanza del 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, in ordine alle controversie nelle materie ivi indicate, e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, in relazione all’art. 3 Cost. In punto di fatto, il rimettente premette di essere investito del procedimento civile promosso al fine di accertare il diritto ad ottenere la restituzione di due libri concessi in comodato e nel quale la convenuta ha eccepito, in via preliminare, la improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Ciò posto, il rimettente riferisce che la controversia riguarda un contratto di comodato, sicché rientra nelle ipotesi previste dall’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed in relazione alle quali il previo esperimento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità; che la proposizione della domanda è successiva all’entrata in vigore della predetta disposizione ed, inoltre, che il convenuto ha tempestivamente sollevato l’improcedibilità della domanda stessa. In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente osserva come l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, concependo il procedimento di mediazione come condizione di procedibilità, rischierebbe di compromettere l’effettività della tutela giudiziale; né si potrebbe argomentare che non vi è preclusione ad accedere alla giustizia dal momento che, una volta attivato il procedimento di mediazione e trascorso il termine di quattro mesi, l’accesso alla giustizia sarebbe possibile, in quanto «è cosa ovvia» che dopo il procedimento di mediazione la parte possa adire il giudice perché «nel nostro sistema è impensabile che non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale». Il giudice a quo prosegue osservando come l’art. 60 della legge delega, con la formula «senza precludere l’accesso alla giustizia», farebbe riferimento alla necessità che la mediazione non condizioni il diritto di azione e che quindi non sia costruita come condizione di procedibilità. Né la brevità del termine potrebbe indurre a conclusioni diverse, visto che detto termine era già stato fissato nella legge delega ed in particolare alla lettera q) del comma 3 dell’art. 60. Ad avviso del rimettente, dunque, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, nelle ipotesi di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, violerebbe l’art. 60 della legge delega n. 69 del 2009. Inoltre, il giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., in quanto se il tentativo obbligatorio di conciliazione ha un costo e questo costo non è meramente simbolico, come appunto previsto dalla disposizione indicata, ciò significa che l’esercizio della funzione giurisdizionale è subordinato al pagamento di una somma di denaro. Vi sarebbe, dunque, il contrasto con i principi affermati nella sentenza n. 67 del 1960 di questa Corte, nella quale è stato stabilito che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, il quale deve trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali. Il giudice rimettente richiama, poi, il noto orientamento della giurisprudenza costituzionale che distingue tra oneri «razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», da ritenere consentiti, e quelli che, invece, «tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette» i quali, conducendo al risultato «di precludere od ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale», incorrono «nella sanzione dell’incostituzionalità» (sono richiamate le sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001). Secondo il rimettente, dunque, l’art. 5 del d.lgs. si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. e con «tutti i parametri di costituzionalità», in quanto prevede un esborso che non può essere ricondotto né al tributo giudiziario, né alla cauzione; che non è di modestissima, né di modesta, entità; che non va allo Stato, bensì ad un organismo che potrebbe avere anche natura privata. Si tratterebbe, poi, di un esborso che non potrebbe considerarsi nemmeno «razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», poiché questi esborsi sarebbero da rinvenire solo nelle cauzioni e nei tributi giudiziari, non in altre cause di pagamento. Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, concernente i criteri di determinazione dell’indennità, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto»; ciò sarebbe in violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice». Le dette disposizioni, inoltre, si porrebbero in contrasto anche con gli artt. 76 e 77 Cost. in quanto violerebbero i principi e criteri direttivi di cui alla lettera a) del comma 3 dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo nell’esercizio della delega doveva prevedere «che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia». 16.— Con atto depositato in data 21 febbraio 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nei precedenti atti di intervento. 17.— Il Giudice di pace di Salerno, con ordinanza del 19 novembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, 70, 76 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il rimettente riferisce che, con atto del 7 novembre 2011, l’attrice ha citato in giudizio una società di assicurazioni, al fine di ottenere il risarcimento delle lesioni subite ed il rimborso delle spese mediche sostenute a seguito di un sinistro stradale, verificatosi il 17 gennaio 2011. In particolare, l’attrice ha affermato di aver stipulato con la convenuta una polizza infortuni avente ad oggetto la copertura di eventuali danni subiti dal conducente a seguito di sinistro stradale e ha concluso per la condanna della detta compagnia di assicurazioni al pagamento delle somme quantificate nell’atto introduttivo del giudizio. La convenuta si è costituita in giudizio ed ha eccepito l’improponibilità della domanda per violazione delle disposizioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, assumendo che non era stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione. Ciò premesso, il rimettente ritiene che «una condizione di procedibilità di una domanda giudiziaria, ex art. 24 Cost., può essere introdotta in maniera esclusiva dal legislatore e non da un organo governativo che avrebbe potuto farlo soltanto se ne fosse stato autorizzato dalla legge di delega». Secondo il giudice a quo l’eccesso si configurerebbe «là dove non è stata recepita la parte in cui [la legge delega] escludeva che il procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla giustizia ordinaria», ciò in quanto «unico intento» della legge di delega era quello di creare un «organismo deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso». Il rimettente osserva, ancora, che «tutto quanto previsto dal decreto in più rispetto al portato della legge delega potrebbe aprire ad una gestione della giustizia ad opera dei privati, come tali non legittimati dalla Costituzione a svolgere detta alta funzione e soprattutto non dotati del rigoroso tecnicismo richiesto». Al riguardo, è richiamato l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui il sistema di giustizia «condizionata» è ammissibile solo nel caso in cui l’eccezione al principio «dell’accesso immediato alla giurisdizione» si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale, purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile far valere le proprie ragioni; oneri che, ad avviso del rimettente, sarebbero anche quelli di carattere economico. L’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. in quanto «ha reso la mediazione una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media conciliazione»; inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media-conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate». 18.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con ordinanza del 3 novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010. In punto di fatto, il rimettente riferisce che la materia oggetto della domanda concerne una richiesta di indennizzo derivante da contratto assicurativo e che, pertanto, rientra nelle ipotesi in cui l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità. Ciò posto, il giudicante ritiene che l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. in quanto, mentre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, al comma 3, lettera a), prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri, al seguente criterio e principio direttivo «[…] a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia», l’art. 5 del d.lgs. citato concepisce il procedimento di mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, «rischiando di compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione». Il giudice a quo ritiene, altresì, che l’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo non meramente simbolico, sia in contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto subordina l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così contravvenendo a quanto affermato dalla sentenza n. 67 del 2 novembre 1960 di questa Corte, secondo cui lo Stato non può pretendere somme di denaro per la funzione giurisdizionale civile, se non nel caso di tributi giudiziari o cauzioni. Detta disposizione, prevedendo, inoltre, che l’esborso di denaro non è destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura privata, contrasterebbe con il principio fissato nelle sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001 della Corte costituzionale, secondo cui l’esborso deve essere «razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione». Sussisterebbe anche il contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto, prevedendo espressamente che la parte convenuta possa non aderire al procedimento e non anche la parte attrice, si introdurrebbe una disparità di trattamento. 19.— Con atto depositato in data 13 marzo 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza del Giudice di pace di Catanzaro n. 2 del 2012, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata. 20.— Il Tribunale di Torino, con ordinanza del 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost., dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata di ufficio dal giudice non oltre la prima udienza». In punto di fatto, il rimettente riferisce che, con atto di citazione dell’11 luglio 2011, gli attori hanno citato in giudizio M.A. per ottenerne la condanna al pagamento di una somma di denaro pari ad euro 7.304,47 quale corrispettivo di spese di riscaldamento per gli anni 2005–2010 e «di risarcimento dei danni conseguenti ad un contratto di locazione» intrattenuto tra la loro dante causa con la convenuta, relativo ad un immobile situato in Torino. La convenuta, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’improcedibilità della domanda giudiziale ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, perché vertente in materia di locazione. Ciò posto, il rimettente ritiene di dover sollevare, di ufficio, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. In primo luogo, egli assume che detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli articoli 76 e 77 Cost. Al riguardo osserva che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, in conformità a quanto prescritto dalla direttiva europea, aveva stabilito che dovesse essere introdotto un meccanismo di conciliazione, ma non ne aveva previsto la obbligatorietà, né aveva consentito che essa potesse essere considerata come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’art. 60 della legge delega, al comma 3, lettera a), prescrive che nell’esercizio della delega il Governo debba attenersi, tra gli altri, al principio consistente «nel prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia». Secondo il rimettente, quindi, «il procedimento di media conciliazione è paragonabile ad un arbitrato irrituale imposto per legge in una ampia serie di materie giuridiche, tra cui questa della locazione, che va ad influenzare sia nei tempi, sia nella sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai giudici ordinari». Si sarebbe perciò in presenza di uno straripamento dei poteri del legislatore delegato, che avrebbe imposto ai giudici, con grave spesa per i cittadini, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale, cioè quello di sospendere o comunque rinviare i processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non essere più attivata, denegando così giustizia ai cittadini stessi; quello derivante dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., come argomento di prova negativa, del contegno di chi non si presenta davanti al mediatore per partecipare alla conciliazione; e, ancora, quello derivante dall’art. 13 del decreto delegato che impone al giudice di tener conto della proposta formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese giudiziali ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. Secondo il rimettente la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 3, 101 e 102 Cost., in quanto il ricorso al procedimento obbligatorio di media-conciliazione graverebbe, con i detti «irragionevoli intralci», sul potere-dovere del giudice, soggetto solo alla legge, di conduzione e di decisione della causa, e porrebbe «gli utenti della giustizia su un piano di diversità perché la scelta delle materie, in cui è obbligatoria la media-conciliazione, appare del tutto irragionevole rispetto agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale». Sussisterebbe, altresì, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la mediazione avrebbe un costo destinato a ricadere sul cittadino il quale deve adire il giudice statuale, peso che nella maggior parte dei casi si rivelerebbe inutile. Il giudicante osserva, altresì, che la disciplina della mediazione non prevede criteri di competenza territoriale, con la conseguenza che il chiamato potrebbe essere posto nella irragionevole svantaggiosa posizione di andare a difendersi anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza; e l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata negativamente dal giudice. 21.— Con atto depositato in data 19 giugno 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha svolto argomentazioni identiche a quelle esposte in relazione all’intervento nel giudizio originato dall’ordinanza r.o. n. 33 del 2012. 22.— In prossimità dell’udienza e della camera di consiglio, l’OUA, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, l’Unione regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, l’AIAF, l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., l’Unione Nazionale delle Camere Civili, hanno depositato memorie con le quali ribadiscono e sviluppano le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione. Considerato in diritto 1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con l’ordinanza del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), dubita – in riferimento agli articoli 24 e 77 della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali). In particolare, il TAR censura il comma 1, primo periodo (che introduce, a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (il quale prevede che l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale) e terzo periodo (alla stregua del quale l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice); inoltre il TAR dubita, in riferimento ai medesimi artt. 24 e 77 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 16 del citato d.lgs. n. 28 del 2010, «laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza». 1.1.— Il TAR premette di essere chiamato a pronunziare in due procedimenti, relativi a ricorsi recanti i numeri 10937 e 11235 del 2010, poi riuniti, promossi entrambi nei confronti del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico, il primo da numerosi soggetti, indicati in epigrafe e in narrativa, il secondo dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), con l’intervento, ad adiuvandum e ad opponendum, di altri soggetti, del pari indicati in epigrafe e in narrativa. Oggetto dei ricorsi è la domanda di annullamento del decreto adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, con richiesta di ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. I ricorrenti affermano che il menzionato d.m. non soltanto sarebbe lesivo degli interessi della categoria forense, ma sarebbe anche illegittimo perché in contrasto col suddetto d.lgs. e con la relativa legge delega e affetto da eccesso di potere sotto vari profili. Ciò posto, il rimettente si sofferma sul quadro normativo rilevante e sui motivi dei ricorsi, con particolare riguardo alle ragioni attinenti alle sollevate questioni di legittimità costituzionale. Dopo avere argomentato sulla rilevanza di tali questioni, il rimettente ritiene che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 si porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., perché non potrebbero essere ascritte all’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), non essendo rilevabile alcun elemento da cui desumere che la regolazione della materia contenuta nella normativa censurata sia conforme ai precetti della detta legge delega. Infatti: 1) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti rivelerebbe in modo espresso la finalità di perseguire un intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale; 2) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto della mediazione come fase pre-processuale obbligatoria; 3) avuto riguardo al silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato almeno necessario che il citato art. 60 lasciasse trasparire sul punto elementi univoci e concludenti, ma ciò non sarebbe avvenuto; 4) si dovrebbe escludere che la norma ora menzionata, con il richiamo alla normativa comunitaria, possa essere intesa come delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale); 5) inoltre, tale direttiva lascerebbe «impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo il procedimento giudiziario»; 6) nessun elemento decisivo potrebbe trarsi dal principio previsto dall’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, nella parte in cui dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, «senza precludere l’accesso alla giustizia», perché il legislatore, utilizzando tale espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio assoluto dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello comunitario. I criteri e principi direttivi fissati dalla legge delega, dunque, sarebbero neutrali al fine di verificare la rispondenza a tale legge dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Invece, due dei criteri direttivi previsti dal legislatore delegante deporrebbero a favore della previsione del carattere facoltativo che si sarebbe inteso attribuire alla procedura di mediazione. Il primo sarebbe desumibile dall’art. 60, comma 3, lettera c), della legge delega, in forza del quale la mediazione sarebbe disciplinata anche mediante estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Orbene, la clausola di conciliazione prevista dal d.lgs. n. 5 del 2003 (normativa ora abrogata proprio dal d.lgs. n. 28 del 2010) nasceva da norme di fonte volontaria e non obbligatoria. Il secondo andrebbe tratto dall’art. 60, comma 3, lettera n), della legge delega, che prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione, nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione. Il rimettente rileva che la possibilità è, ovviamente, cosa diversa dalla obbligatorietà; e, infatti, l’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010 differenzierebbe al comma 3 l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi nei quali l’espletamento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Quanto all’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, esso avrebbe «conformato gli organismi di conciliazione a parametri, o meglio a qualità, che attengono esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica, e che, per contro, sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale». 2.— Il Giudice di pace di Parma, con ordinanza depositata il 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010. Il rimettente, premesso di essere chiamato a giudicare in una causa civile avente ad oggetto una domanda di pagamento in materia di locazione, rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, ritiene che le norme censurate siano in contrasto: a) con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste, l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e, per ciò stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». In particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione tecnica o professionale»; sicché «in difetto di una adeguata definizione della figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase preliminare del procedimento di mediazione»; b) con l’art. 77 Cost., posto che «il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed anzi, alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui alle lettere c) ed n) del comma 3 dell’art. 60, si deve escludere che l’obbligatorietà di detto procedimento possa rientrare nella discrezionalità tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di riferimento». 3.— Il Giudice di pace di Recco, con l’ordinanza depositata il 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, «da soli o in combinato disposto». Le suddette disposizioni, ad avviso del rimettente, sarebbero in contrasto con: a) l’art. 24 Cost., in relazione ai tempi del processo, in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi obbligatori di conciliazione, ma con termini di espletamento più brevi; b) ancora con l’art. 24 Cost., in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, assumendo che «Tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima»; c) con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina dei costi di mediazione introduce una disparità di trattamento tra i meno abbienti e gli abbienti. Infatti, benché sia stato previsto il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la citata disparità comunque resterebbe in relazione ai soggetti che, pur non rientrando nel novero di coloro che possono avvalersi del detto patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate; d) con l’art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento della mediazione allunga i tempi di esso in assenza di una idonea giustificazione; e) ancora con l’art. 111 Cost., sempre sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento obbligatorio del tentativo di mediazione si deve effettuare non soltanto con riguardo alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del giudizio; f) di nuovo con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza correlata al carattere obbligatorio della mediazione avente ad oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, in quanto nel processo avanti al detto giudice il tentativo obbligatorio di conciliazione è già previsto. 4.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), dubita – in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. – della legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che lo svolgimento della procedura di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale in relazione alle controversie nelle materie in esso indicate. Il rimettente riferisce di dover pronunziare in un giudizio promosso dall’attore per accertare il suo diritto ad ottenere la restituzione di due libri dati in comodato. La convenuta ha eccepito, in via preliminare, l’improcedibilità della domanda per omesso espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai sensi del censurato art. 5. Ad avviso del giudicante, detta norma violerebbe: a) gli artt. 76 e 77 Cost., ponendosi in contrasto con i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, doveva prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, avesse per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia; b) l’art. 24 Cost. perché il tentativo obbligatorio di conciliazione avrebbe un costo non meramente simbolico, sicché l’esercizio della funzione giurisdizionale sarebbe subordinato al pagamento di una somma di denaro. Inoltre, il giudice a quo censura, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto». Al riguardo, il rimettente ritiene che detta disposizione sia in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice rispetto a quella convenuta». 5.— Il Tribunale di Genova, con ordinanza depositata il 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – questioni di legittimità costituzionale: 1) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede l’esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo per le materie espressamente elencate nel comma primo; 2) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, nella parte in cui non prevedono, per le domande dirette all’accertamento di diritti reali, la possibilità di trascrivere la domanda di mediazione e direttamente il verbale di mediazione, con efficacia prenotativa della prima anche rispetto al provvedimento giurisdizionale conclusivo del giudizio; 3) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m n. 180 del 2010, nella parte in cui prevedono l’espletamento della procedura di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, stabilendone, altresì, il carattere oneroso; 4) in riferimento al solo art. 3 Cost., del combinato disposto degli artt. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e 16 del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui prevedono che solo il convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione. Il rimettente, quanto al punto sub 1), ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la limitazione della procedura di mediazione solo ad alcune materie darebbe luogo ad una differenza non giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa; in ordine al punto sub 2), i citati parametri costituzionali sarebbero violati perché l’attore si vedrebbe costretto a presentare istanza di mediazione (a pena d’improcedibilità), ad iniziare un giudizio trascrivendo la relativa domanda, a prescindere dall’esito della mediazione stessa, a chiedere in ogni caso una pronunzia giurisdizionale di merito, con la irragionevole conseguenza che l’attore dovrebbe sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione. Quanto al punto sub 3), le disposizioni in esso menzionate si porrebbero in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. perché l’accesso alla giurisdizione resterebbe condizionato al pagamento di una somma di denaro; infine, in relazione al punto 4) le norme censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., perché esse darebbero luogo ad una disparità di trattamento tra attore e convenuto, dal momento che per il primo non sarebbe prevista la possibilità di rinunziare ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio sia di quelle di mediazione. 6.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 3 novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010. Ad avviso del rimettente, chiamato a decidere su una domanda diretta ad ottenere il pagamento di un indennizzo derivante da contratto assicurativo, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che l’espletamento della procedura di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale, violerebbe l’art. 77 Cost. Infatti, sussisterebbe contrasto «tra la legge delega ed il decreto legislativo 28/10, nella misura in cui, mentre l’art. 60 L. 69/09 (legge delega) al terzo comma lett. a prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri, al seguente principio e criterio direttivo “a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia”, l’art. 5 d.lgs. n. 28/10 concepisce invece il procedimento di mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, rischiando di compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione». Inoltre, l’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010 si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 24 Cost., perché, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo, non meramente simbolico, subordinerebbe l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così discostandosi anche dalla sentenza di questa Corte n. 67 del 1960. Infine, sarebbe ravvisabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché l’art. 16 ora citato, concernente i criteri di determinazione delle indennità, prevedendo che soltanto il convenuto, e non l’attore, possa non aderire alla procedura di mediazione, introdurrebbe una disparità di trattamento. 7.— Il Giudice di pace di Salerno, con l’ordinanza depositata il 19 dicembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 70, 76 e 77 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Il rimettente, chiamato a pronunciarsi in un giudizio promosso contro una società di assicurazioni al fine di ottenere un indennizzo per lesioni subite e per spese mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, ritiene che la norma censurata, nella parte in cui prevede che l’esperimento della procedura di mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si riveli in contrasto con gli artt. 70, 76 e 77 Cost., in quanto «analizzando il rapporto tra legge delega e decreto legislativo n. 28/2010 emerge chiaramente che l’art. 26 (recte: 76) attribuisce la delega al Governo “esclusivamente” per recepire la disposizione prevista dall’art. 69/09 ed in particolare l’eccesso si configura laddove non è stata recepita la parte in cui escludeva che il procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla giustizia ordinaria». Ciò perché unico intento della legge delega sarebbe stato quello di creare esclusivamente «un organismo deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso». Inoltre, sarebbe violato l’art. 24 Cost. perché la norma denunziata avrebbe reso «la mediazione una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media conciliazione». Inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate». A sostegno della tesi propugnata, il giudice a quo richiama il principio affermato da questa Corte, secondo il quale «un sistema di giustizia “condizionata” è ammissibile solo nel caso in cui l’eccezione al principio dell’accesso immediato alla giurisdizione si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale, purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile far valere le proprie ragioni». 8.— Il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, con l’ordinanza depositata il 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il rimettente riferisce di essere investito di un giudizio di pagamento di somme relative ad un contratto di locazione. In prima udienza la convenuta ha eccepito l’improcedibilità della domanda, non essendo stata attivata la procedura di mediazione. Ciò posto, il giudice a quo ritiene che la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., in quanto, configurando il procedimento di mediazione come obbligatorio e condizione di procedibilità della domanda, violerebbe il principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, deve prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia. Il procedimento di media-conciliazione sarebbe «paragonabile ad un arbitrato irrituale imposto per legge in un’ampia serie di materie giuridiche», tra cui la locazione, procedimento che «va ad influenzare sia nei tempi sia nella sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai giudici ordinari». Ad avviso del rimettente, sarebbero poi violati gli artt. 101 e 102 Cost., perché «lo straripamento dei poteri del legislatore delegato» avrebbe imposto ai giudici, nel corso dei processi, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale: 1) quello derivante dall’imporre al giudice di sospendere o comunque rinviare i processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non essere più attivata, così denegando giustizia ai cittadini; 2) quello derivante dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell’art. 116 del codice di procedura civile, come argomento di prova negativa, del comportamento di chi non si presenta davanti al mediatore per partecipare alla conciliazione; 3) quello derivante dall’art. 13 del decreto delegato, che impone al giudice di tenere conto della proposta formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese processuali, ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. Ancora, sarebbero violati gli artt. 3 e 24 Cost., perché la scelta delle materie, nelle quali la mediazione è obbligatoria, apparirebbe del tutto irragionevole rispetto agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale, in quanto – introducendo un costo a carico dei cittadini ed a favore degli uffici privati della media-conciliazione – si porrebbe in contrasto con i principi dettati da questa Corte nella sentenza n. 67 del 1960; non prevedendo criteri di competenza territoriale, porrebbe il privato nella irragionevole posizione di doversi difendere anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza, scelti dall’attore; l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata negativamente dal giudice. 9.— Le otto ordinanze di rimessione, qui riassunte, pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. Pertanto, i relativi giudizi devono essere riuniti, per essere definiti con unica sentenza. 10.— In via preliminare deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio di cui all’ordinanza n. 268 del 2011 dai seguenti soggetti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione ed Arbitrato (SIC & A) s.r.l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo; la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; Assomediazione – Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione; nonché l’intervento spiegato dal Consiglio Nazionale Forense nel giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale di Genova r.o. n. 108 del 2012. Invero, i soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus. Per giurisprudenza di questa Corte, ormai costante, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007). Orbene, nei giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense, dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio, nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati. Sotto altro profilo, l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo. Considerazioni identiche valgono in ordine alla posizione di ADR Accorditalia s.r.l. Tale società ha spiegato intervento ad opponendum nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, relativo alla questione sollevata dal Giudice di pace di Salerno (r.o. n. 51 del 2012), pur non rivestendo la qualità di parte nel giudizio a quo. Ne deriva la declaratoria d’inammissibilità dei suddetti interventi. 11.— La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Giudice di pace di Recco, deve essere dichiarata inammissibile. Infatti, il rimettente omette qualsiasi descrizione della fattispecie sottoposta al suo esame, limitandosi a rilevare che si tratta di controversia «non priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione, che tuttavia, essendo matura per la decisione in quanto basata esclusivamente su risultanze documentali, sarebbe stata decisa in quindici giorni». In particolare, il giudice a quo trascura di fornire elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo in punto di rilevanza. Né la rilevata omissione potrebbe essere sanata con l’esame del fascicolo relativo al giudizio di merito, perché ciò si tradurrebbe in violazione del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione. 12.— Devono essere esaminate con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77 Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione della legge delega, attribuisce al preliminare esperimento della procedura di mediazione. Al riguardo, è il caso di osservare che l’ordinanza di rimessione del TAR menziona esplicitamente tra i parametri costituzionali, oltre all’art. 24, soltanto l’art. 77 Cost. Tuttavia, poiché dalla motivazione della detta ordinanza si desume con chiarezza il richiamo anche alla violazione dell’art. 76 Cost., lo scrutinio di legittimità costituzionale va condotto pure in riferimento all’eccesso di delega, peraltro evocato da altre ordinanze di rimessione. Il citato art. 5, comma 1, sotto la rubrica «Condizione di procedibilità e rapporti con il processo», così dispone: «1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni». In forza di tale norma, la parte che intende agire in giudizio per una delle azioni specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire la procedura di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta procedura è censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le ordinanze di rimessione sopra riassunte; e tali censure sono fondate. 12.1.— Si deve premettere che, come questa Corte ha più volte affermato, «Il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro relativo alla norma delegata da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi. Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007). In particolare, circa i requisiti che devono fungere da cerniera tra i due atti normativi, «i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341 del 2007, ordinanza n. 228 del 2005). Ciò posto, si deve osservare che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c, della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea. È necessaria, dunque, una ricognizione, sia pure concisa, degli elementi desumibili da tale normativa. L’indagine deve prendere le mosse dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio in data 21 maggio 2008, «relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale». Essa risponde alla necessità – già posta in rilievo dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, nelle conclusioni adottate dal detto Consiglio nel maggio 2000, nonché dal libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile 2002 – di garantire un migliore accesso alla giustizia, invitando gli Stati membri ad istituire procedure extragiudiziali ed alternative di risoluzione delle controversie civili e commerciali. La direttiva muove dal presupposto che la mediazione «può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti. Gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera» (direttiva citata, sesto Considerando). Il quattordicesimo Considerando afferma che «La presente direttiva dovrebbe inoltre fare salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario. Del pari, la presente direttiva non dovrebbe pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione autoregolatori nella misura in cui essi trattano aspetti non coperti dalla presente direttiva». Il principio, poi, è ripreso e precisato nell’art. 3, lettera a), della direttiva medesima che, dopo avere definito la mediazione come «un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore», in ordine alle modalità stabilisce che «Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro». Infine, l’art. 5, comma 2, dispone che «La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario». Merita, poi, di essere menzionata la Risoluzione del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e familiare, ancorché priva di efficacia vincolante. Essa considera, tra l’altro, che una soluzione alternativa delle controversie (Alternative Dispute Resolution – ADR), che consenta alle parti di evitare le tradizionali procedure arbitrali, può costituire un’alternativa rapida ed economica ai contenziosi; e, al paragrafo 10, afferma che «al fine di non pregiudicare l’accesso alla giustizia, si oppone a qualsiasi imposizione generalizzata di un sistema obbligatorio di ADR a livello di UE, ma ritiene che si potrebbe valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei reclami delle parti al fine di esaminare le possibilità di ADR». Al paragrafo 31, sesto capoverso, aggiunge (tra l’altro) che l’ADR deve avere un carattere facoltativo, fondato sul rispetto della libera scelta delle parti durante l’intero arco del processo, che lasci loro la possibilità di risolvere in qualsiasi istante la controversia dinanzi ad un tribunale, e che esso non deve essere in alcun caso una prima tappa obbligatoria preliminare all’azione in giudizio. Da ultimo, va ricordata, nei limiti in precedenza esposti, la risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI), relativa all’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel passare in rassegna le modalità con cui alcuni degli Stati membri hanno attuato la direttiva citata, osserva nel paragrafo 10 che «nel sistema giuridico italiano la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l’obiettivo di diminuire la congestione nei tribunali; ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e più rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria». Per completare il quadro, è da considerare, nei limiti di seguito precisati, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08. Con tale pronuncia la Corte ha affermato i seguenti principi: a) l’art. 34 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, n. 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di comunicazione elettronica tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che riguardano diritti conferiti da tale direttiva, devono formare oggetto di un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali; b) neanche i principi di equivalenza e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva, ostano ad una normativa nazionale che impone per siffatte controversie il previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero questi non siano ingenti per le parti, e purché la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo imponga. Nella motivazione della pronuncia si legge (punto 65) che, da un lato, non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale. 12.2.— Come emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati atti dell’Unione europea non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2, della direttiva citata). Allo stesso principio, come risulta dal dispositivo, s’ispira la sentenza della Corte di giustizia richiamata nel paragrafo che precede. Vero è che, in un passaggio argomentativo (punto 65 della motivazione) la Corte considera inesistente una alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, perché l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituirebbe uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione degli obiettivi perseguiti. Ma tale rilievo non può costituire un precedente, sia perché si tratta di un obiter dictum, sia perché la sentenza citata interviene su una procedura conciliativa concernente un tipo ben circoscritto di controversie (quelle in materia di servizi di comunicazioni elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), là dove la mediazione di cui qui si discute riguarda un rilevante numero di vertenze, che rende non comparabili le due procedure anche per le differenze strutturali che le caratterizzano. Pertanto, la disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri, purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la definizione giudiziaria delle controversie. Ne deriva che l’opzione a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla normativa censurata, non può trovare fondamento nella citata disciplina. Infatti, una volta raggiunta tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il contenuto della legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria. 13.— Si deve ora procedere all’interpretazione della legge delega (art. 60 della legge n. 69 del 2009), al fine di verificare il rispetto dei principi da essa posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010 e, in particolare, delle disposizioni oggetto di censure. Orbene, la detta legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso. Non si potrebbe ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art. 60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a carattere obbligatorio. In particolare: l’art. 60, comma 3, lettera c), dispone che la mediazione sia disciplinata «anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5», recante la definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale decreto (poi abrogati dall’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) prevedevano un procedimento di conciliazione stragiudiziale nel quale il ricorso alla mediazione trovava la propria fonte in un accordo tra le parti (contratto o statuto). Il modulo richiamato dal legislatore delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che non si concilia (pur volendo considerare quel richiamo come non vincolante) con un’opzione a favore della mediazione obbligatoria. Ancora, merita di essere menzionato il disposto dell’art. 60, comma 3, lettera n), della norma di delega, alla stregua del quale nell’esercizio della delega stessa il Governo doveva attenersi (tra gli altri) al principio di «prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilità» di avvalersi significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi («è tenuto preliminarmente»), cui invece fa riferimento l’art. 5, comma 1, del decreto delegato. Il che si evince con chiarezza dall’art. 4, comma 3, di quest’ultimo. La disposizione così stabilisce: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20»; poi, così prosegue: «L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale». Com’è palese, si tratta di due disposizioni distinte, la prima riferibile alla mediazione facoltativa, la seconda alla mediazione obbligatoria e perciò costituente condizione di procedibilità della domanda. Tuttavia, soltanto il primo modello trova la necessaria copertura nella norma di delega. Il secondo compare nel decreto delegato, ma è privo di ancoraggio nella norma suddetta. Il denunciato eccesso di delega, dunque, sussiste, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto di conciliazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa delegata. Né giova il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 276 del 2000. Invero, con quella pronuncia fu dichiarata (tra l’altro) non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis cod. proc. civ., come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e dall’art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80). La Corte pervenne a tale decisione escludendo (tra l’altro) che le norme censurate fossero viziate da eccesso di delega. A tal fine, essa, prendendo le mosse dalla complessa riforma che aveva realizzato il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego «privatizzato» con le pubbliche amministrazioni, sottolineò che la messa a punto di strumenti idonei ad agevolare la composizione stragiudiziale delle controversie, per limitare il ricorso al giudice ordinario alle sole ipotesi di inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione, appariva un momento essenziale per la riuscita della riforma. Pose l’accento sul criterio direttivo di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), rimarcando che detta norma, nel devolvere al giudice ordinario tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, prevedeva l’introduzione di «misure organizzative e processuali anche di carattere generale, atte a prevenire disfunzioni relative al sovraccarico del contenzioso», nonché di «procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato». Dopo avere ricostruito l’oggetto della delega, osservò che «la lettera della delega del 1997 – riferendosi a “procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” – non menziona il predicato dell’obbligatorietà. Ma è anche vero che, quando la delega venne conferita, l’articolo 410 del codice di procedura civile, nel testo allora vigente, già contemplava un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ex art. 409, mentre l’art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993 prevedeva – come si è detto – un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. In siffatto contesto deve escludersi che la delega si limitasse ad attribuire al legislatore delegato il potere di regolare diversamente le mere modalità organizzative del tentativo di conciliazione esistente, senza consentire (per le controversie ex art. 409 del codice di procedura civile) l’introduzione dell’obbligatorietà». Come si vede, la sentenza n. 276 del 2000, per giungere alla conclusione secondo cui «L’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie ex art. 409 del codice di procedura civile ha dunque rispettato la delega» (punto 2.5. quarto capoverso, del Considerato in diritto), fece leva sia sul contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore. La fattispecie qui in esame è, invece, diversa: a parte la differenza di contesto, essa delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega. Né varrebbe addurre che l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in relazione ai quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in riferimento all’istituto in esame. Infine, quanto alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia. In definitiva, alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione di questi. Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi in via consequenziale alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell’art. 5, comma 5, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano», anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o) dell’art. 24 del detto decreto legislativo. 14.— Ogni altro profilo resta assorbito. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi; 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali); 2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d) dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del detto decreto legislativo; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata dal Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2012. F.to: Alfonso QUARANTA, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2012. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI Allegato: ordinanza letta all’udienza del 23 ottobre 2012 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (TAR) depositata il 12 aprile 2011 (n. 268 Reg. ordinanze 2011); Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale di Genova depositata il 18 novembre 2011 (n. 108 Reg. ordinanze 2012); rilevato che nel primo dei detti giudizi di legittimità costituzionale (R. O. n. 268 del 2011) sono intervenuti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione e Arbitrato (SIC&A), s. r. l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo; la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; ASSOMEDIAZIONE – Associazione italiana organismi Privati di Mediazione e di Formazione per la Mediazione; che nel secondo dei detti giudizi di legittimità costituzionale (R. O. n. 108 del 2012) è intervenuto, con atto depositato il 26 giugno 2012, il Consiglio Nazionale Forense; che i soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus; che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007); che, nei giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense, dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio, nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati; che l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo; che, pertanto, gli interventi spiegati nei giudizi di legittimità costituzionale sopra indicati dai soggetti di cui in motivazione devono essere dichiarati inammissibili. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili gli interventi spiegati dai soggetti di cui in motivazione nei giudizi di legittimità costituzionale R. O. n. 268 del 2011 e n. 108 del 2012. F.to: Alfonso Quaranta, Presidente L’art. 25 della L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) richiede per la
malattia protratta oltre dieci giorni e persecondo evento morboso nell’anno solare la certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il S.S.N. Il certificato, che deve essere sempre l'esito di una visita e non meramente "anamnestico", può essere contestato dal datore di lavoro mediante il ricorso all’autorità giudiziaria (Cass. Sez. lavoro, 13 febbraio 1990, n. 1044) che valuterà l'attendibilità degli accertamenti sanitari, nella istruttoria del rito lavoro. Il giudizio avrà ad oggetto l'eventuale incongruenza tra la prognosi e la diagnosi o la terapia prescritta, o la stessa attendibilità della diagnosi, ad esempio in casi di tardività della medesima in un susseguirsi di eventi morbosi, anche in ragione di circostanze di fatto dedotte in giudizio (esercizio di attività incompatibile con lo stato morboso; richiesta di permesso già negata per il giorno poi rivelatosi di malattia; omessa visita di controllo; incongruenza tra l'esito della stessa e la certificazione medica attestante la malattia; etc.) Il G.U.Lavoro di Velletri con Decreto del 27/09/2011 ha dichiarato "antisindacale" il comportamento del Dirigente scolastico per non aver effettuato la contrattazione integrativa di cui all'art. 6 lett. h, i ed m del CCNL di settore 2006/2009, nel determinare unilateralmente i criteri di assegnazione del personale, modalità di utilizzaizione dello stesso, scelta che secondo il Giudice del Lavoro. non riguarderebbe l'organizzazione scolastica strettamente intesa, e non sarebbe stata sottratta, ex art. 34 del D.Lgs. 150/09, alla contrattazione collettiva.
http://2.flcgil.stgy.it/files/pdf/20111010/decreto-tribunale-di-velletri-del-27-settembre-2011-comportamento-antisindacale-per-rifiuto-contrattazione-integrativa.pdf Cassazione - Sezione lavoro - sentenza 13 giugno - 26 settembre 2008, n. 24186 - Presidente Ravagnani - Relatore Mammone
Ricorrente XXX Ritenuto in fatto e diritto XXX si rivolse al giudice del lavoro di Patti per ottenere il pagamento di differenze retributive dal datore YYY s.r.l.. Accolta la domanda, detta società proponeva appello deducendo che erroneamente il primo giudice non aveva accordato valore di prova dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni alle buste paga sottoscritte dalla dipendente, considerando le sottoscrizioni solo prova della ricezione dei prospetti. Proponeva a sua volta appello incidentale la XXX circa la quantificazione delle spettanze. Con sentenza 22.2-27.4.05 la Corte di appello di Messina accoglieva l’impugnazione principale rilevando che non c’era prova che le somme indicate sulle buste paga fossero di importo inferiore a quello percepito dalla ricorrente e che costei aveva fallito all’onere probatorio a lei facente carico circa la non corrispondenza tra le somme ivi indicate e quelle realmente percepite, di cui assumeva l’insufficienza. Ritenuto infondato anche l’appello incidentale, la Corte rigettava la domanda. Proponeva ricorso per cassazione la XXX deducendo tre violazioni di legge: a) (artt. 2730, 2735, 2697, 2727 e 2729 c.c.) in quanto il giudice di merito avrebbe impropriamente attribuito valore di confessione stragiudiziale alle presunte quietanze risultanti dalla sottoscrizione delle buste paga; b) (artt. 414, 416, 421, 437 c.p.c.) in quanto sarebbe stata presa in considerazione documentazione tardivamente prodotta; c) (artt. 91 e 92 c.p.c.) in quanto avrebbe dovuto far seguito la condanna alle spese di secondo grado in caso di rigetto dell’appello principale e accoglimento dell’incidentale. Deduce la ricorrente anche carenza di motivazione in punto di rigetto dell’appello incidentale. Si costituiva con controricorso la YYY s.r.l.. Il Procuratore generale chiedeva che il ricorso venisse trattato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c. e fosse rigettato per manifesta infondatezza. Notificate le conclusioni del P.g.ai difensori delle parti, il ricorso è stato esaminato in camera di consiglio in data odierna. Il ricorso non è fondato. La giurisprudenza di legittimità ritiene che non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga per cui è sempre possibile l’accertamento della insussistenza del carattere di quietanza anche delle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle buste paga (Cass. 14.7.01 n. 9588). Inoltre, anche la sottoscrizione “per ricevuta” apposta dal lavoratore alla busta paga non implica, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, di modo che la suddetta espressione non è tale da potersi interpretare alla stregua del solo riscontro letterale, imponendo invece il ricorso anche agli ulteriori criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e seguenti (Cass. 24.6.98 n. 6267). Tali principi consentono, quindi, al lavoratore di dimostrare che le somme percepite fossero inferiori a quelle indicate sulle buste paga. Nel caso di specie il giudice di merito si è attenuto a questi principi, rilevando con motivazione congrua (la sottoscrizione delle buste paga in unico contesto - pur sollecitata dalla promessa del datore di rilasciare automaticamente le certificazioni necessarie per l’iscrizione nel registro dei pubblicisti - non implica automaticamente la non veridicità dell’importo ivi indicato) che la ricorrente non avesse assolto all’onere probatorio della non corrispondenza dei due importi. L’unico dato emergente in senso contrario (la testimonianza del padre dell’attrice) con accertamento di merito congruamente motivato (e, quindi, non censurabile in sede di legittimità) è stato disatteso, di modo che non pare censurabile la conclusione che l’attrice abbia fallito all’onere probatorio a lei facente capo. Quanto agli altri motivi, quello sub b) e quello attinente la carente motivazione del rigetto dell’appello incidentale, sono entrambi inammissibili per mancanza di autosufficienza, il primo perché non sono indicati i documenti tardivamente prodotti e il rilievo che agli stessi avrebbe attribuito il giudice di appello, il secondo perché non sono esposte le circostanze che, a dire della ricorrente, avrebbero invece raccomandato l’accoglimento dell’impugnazione. Il motivo sub c) (attinente le spese) è assorbito. In definitiva il ricorso va ritenuto infondato e va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in euro 30 per esborsi ed in euro 1.500 per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa. _IN CASO DI LICENZIAMENTO PER RAGIONI ORGANIZZATIVE IL GIUDICE SI LIMITA A CONSTATARE CHE LA MOTIVAZIONE RISPONDA ALLA REALTA' DEI FATTI - Senza ingerirsi nelle scelte imprenditoriali (Cassazione Sezione Lavoro n. 755 del 19 gennaio 2012, Pres. Roselli, Rel. Curzio). Simona D. dipendente della s.r.l. Sannio Post è stata licenziata con motivazione riferita alla "impossibilità sopravvenuta da diversi mesi a sostenere i notevoli costi di gestione dell'appalto a cui deve far fronte la società con la sua presenza in servizio." La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, contestandone la motivazione. Il Tribunale di Torino, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha annullato il licenziamento, osservando che l'azienda non aveva provato la cessazione del servizio cui Simona D. era addetta né l'impossibilità di impiegarla in altro posto e che era pacifica l'avvenuta immediata sostituzione della licenziata con altro lavoratore legato da contratto di co.co.pro.. In grado di appello la Corte di Torino ha confermato la decisione del Tribunale, affermando che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento non sussiste in assenza di comprovate ragioni attinenti alla riorganizzazione dell'attività lavorativa perché: "è pacificamente emerso all'esito della compiuta istruzione (testi M. e P.) e dalla documentazione prodotta (cfr. libro matricola relativo alla sede operativa di Alessandria), sia che le riduzioni di orario conseguenti alle variazioni effettuate da Poste furono modeste e tali da non comportare la sostanziale diminuzione del lavoro e la soppressione dell'utilizzo di uno dei sei furgoni impiegati dall'appaltatrice Sannio, sia che la D. venne sostituita attraverso l'impiego del sig. M. assunto come co.co.pro. dall'appellante una settimana prima del licenziamento intimato all'appellata.". L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte torinese per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 755 del 19 gennaio 2012, Pres. Roselli, Rel. Curzio), ha rigettato il ricorso. I giudici del merito - ha osservato la Corte - hanno ritenuto provato che vi era stata solo una 'modesta' riduzione di lavoro appaltato da Poste italiane spa, sicuramente non idonea a giustificare la soppressione del posto di lavoro della sig.ra D. Tale riduzione non aveva comportato il venir meno della necessità del contemporaneo utilizzo dei sei furgoni impiegati dalla società e quindi dell'attività della sig.ra D., che del resto non era stata soppressa, perché il suo posto era stato preso da un collaboratore assunto con contratto di lavoro a progetto. La stessa società ricorrente - ha osservato la Corte - non contesta tale assunto perché in più punti del ricorso ed, in particolare nel quesito del primo motivo, parla di "non ingente" diminuzione dei servizi forniti in appalto, utilizzando un'espressione (non ingente), che è del tutto simile a quella utilizzata dalla Corte (modesta). Pertanto, l'assunto di fondo posto a base dei due motivi e cioè che la Corte non abbia rispettato i limiti del suo compito di controllo, ma li abbia travalicati ingerendosi nelle scelte imprenditoriali, è privo di fondamento, perché la Corte si è limitata a constatare che la motivazione della società ricorrente a giustificazione del licenziamento non corrispondeva alla realtà dei fatti. In: http://www.legge-e-giustizia.it http://www.legge-e-giustizia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4250&Itemid=131 |
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Febbraio 2024
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